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Preferisco un mondo senza burqa.

22 Ott

Lo voglio dire, voglio che sia chiaro, a costo di sembrare intollerante: voglio vivere in un Paese dove le donne non sono obbligate ad indossare il burqa. Voglio vivere in una Europa dove le donne possono girare in macchina, con i finestrini aperti, senza avere un velo sul viso, con le mani, le braccia e le spalle scoperte, senza per questo temere di essere sfregiate con dell’acido, da un gruppo di idioti fanatici repressi. Per questo, sto dalla parte dei francesi, e degli artisti del coro dell’Opera di Parigi, che nei giorni scorsi hanno minacciato di interrompere La traviata, se la donna completamente velata seduta in prima fila, non fosse uscita dal teatro, dal momento che in Francia, dal 2010 esiste il divieto di indossare indumenti che nascondono il volto. Non è questione di intolleranza, né di mancanza di rispetto delle culture altrui, è, a mio parere, questione di rispetto dell’essere umano, della propria libertà di movimento, di espressione, di azione. E non nascondiamoci dietro il “consenso”, poiché, come giustamente dice Bernard Henry Levy in un suo intervento del 2010, “lo schiavo felice non ha mai giustificato la fondamentale, essenziale infamia della schiavitù”.

HUFFINGTON POST 17.04.2010

Why I support a Ban on Burqas.

Bernard-Henri Levy is a French philosopher and writer.

People say, “The burqa is a dress, at most a costume. We’re not going to make laws about clothing and costumes.” Error. The burqa is not a dress, it’s a message, one that clearly communicates the subjugation, the subservience, the crushing and the defeat of women.

People say, “Perhaps it’s subjugation, but it’s done with consent. Get it out of your mind that malicious husbands, abusive fathers, and local tyrants are forcing the burqa on women who don’t want to wear it.” Fine. Except that voluntary servitude has never held water as an argument. The happy slave has never justified the fundamental, essential, ontological infamy of slavery. And, from the Stoics to [19th century thinker] Elisée Reclus, from Schoelcher to Lamartine to Tocqueville, all who rejected slavery provided us with every possible argument against the minor added outrage that consists of transforming victims into the authors of their own misery.

People evoke freedom of religion and conscience, freedom for each of us to choose and practice the religion of his or her choice; in the name of what can anyone forbid the faithful to honor God according to the rules indicated in their sacred texts? Another sophism, for — and it can never be repeated enough — the wearing of the burqa corresponds to no Koranic prescription. There is no verse, no text of the Sunna that obliges women to live in this prison of wire and cloth that is the full-body veil. There is not a shoyoukh, not one religious scholar, who is unaware that the Koran does not consider showing the face “nudity” any more than it does showing the hands. And I’m not even mentioning those who tell their congregations loudly and clearly, as Hassan Chalghoumi, the courageous Imam of Drancy, did today, that wearing a full-body veil is downright anti-Islamic.

People say, “Let’s not confuse things! Be careful, drawing attention to the burqa may encourage an Islamophobia — itself a form of racism in disguise — that’s just dying to explode. We closed the door on this racism, preventing it from infiltrating the debate on national identity. Are we going to let it sneak back in through the window in this discussion of the burqa?” Still another sophism, tireless but absurd, for one has nothing to do with the other. Islamophobia — and it can never be repeated enough — is obviously not racism. Personally, I am not Islamophobic. I am far too concerned with the spiritual and the dialogue among spiritualities to feel any hostility towards one religion or another. But the right to freely criticize them, the right to make fun of their dogmas or beliefs, the right to be a non-believer, the right to blasphemy and apostasy — all these were acquired at too great a cost for us to allow a sect, terrorists of thought, to nullify them or undermine them. This is not about the burqa, it’s about Voltaire. What is at stake is the Enlightenment of yesterday and today, and the heritage of both, no less sacred than that of the three monotheisms. A step backwards, just one, on this front would give the nod to all obscurantism, all fanaticism, all the true thoughts of hatred and violence.

And then, people finally say, “But what are we talking about here, anyway? How many cases? How many burqas? Why all this uproar for a few thousand, maybe just a few hundred, burqas to be found in the entirety of French territory, why dig up this arsenal of regulations, why pass a law?” That’s the most popular argument at present and, for some, the most convincing. But in reality, it’s as specious as all the others. For one of two things is true. Either it’s just a game, an accoutrement, a costume (cf. above), if you will, in which case tolerance would be the suitable response. Or else we’re talking about an offense to women, a blow to their dignity, a blatant challenge to the fundamental republican rule — earned at what cost as well — of equality between the sexes. In that case, it is a question of principle. And when principles are involved, the number is of no consequence. Supposing we called into question the laws of 1881 (outlining the fundamentals of freedom of the press and of expression in France) on the pretext that attacks on the freedom of the press have become rare? And, considering the declining incidence of racist or antisemitic attacks, what would we think of someone who suggested the abolition or even the watering down of current pertinent legislation? If the burqa is really, as I am saying, an affront to women and to their secular struggle for equality, it is, moreover, an insult to the women who, at the very hour I write these words, are demonstrating barefaced in Iran against a regime of assassins who claim the burqa among their symbols. This symbol would divide humanity between those of glorious body, graced with no less glorious a face, and those whose bodies and faces are an outrage in the flesh, a scandal, a filthy thing not to be seen but hidden or neutralized. And that is why, if there is even one woman in France, just one, who enters a hospital or the city hall imprisoned in a burqa, she must be set free.

For all these reasons of principle, I am in favor of a law that clearly and plainly declares that wearing a burqa in the public area is anti-republican.

Due giornate per capire e sentirsi meno sole.

27 Mag

scarpe rosse contro violenzaRaramente, capita di partecipare ad un convegno e non avere voglia di sbadigliare in faccia ai relatori o di scappare velocemente allo scoccare dell’ora x, giusto in tempo per accumulare crediti formativi. Capita raramente, ma capita, e una di quelle occasioni è stato il convegno che si è svolto a Cagliari il 24 e 25 maggio scorsi: “Una rete..per difenderci. Tutti insieme contro la violenza”. Ebbene, sono state, veramente, due giornate in cui l’espressione “tutti insieme” è stata riempita di significato e durante le quali il fenomeno della violenza, nei confronti delle donne in quanto tali (per esempio, il femminicidio, l’omicidio di una donna proprio in quanto donna), dei bambini, degli omosessuali, dei transgender, in generale dei soggetti che pur essendo forti in qualche frangente della vita diventano deboli e fragili, è stato affrontato sotto tutti gli aspetti possibili, con grande passione, entusiasmo, professionalità. Lo spunto dal quale è partita la riflessione, è stata l’attuazione dell’atto d’intesa siglato dall’Ordine dei medici e l’Ordine degli avvocati, di Cagliari, nel 2009 e del successivo Protocollo d’intesa sottoscritto nel 2010, oltre che dai due Ordini, dalla Provincia di Cagliari, dal Comune di Cagliari, diverse aziende ospedaliere, e molte altre istituzioni, con la formazione di un “Tavolo interistituzionale per la promozione della rete provinciale contro la violenza e al consolidamento della rete dei soggetti impegnati sul campo per garantire il monitoraggio del fenomeno, la tutela delle vittime ed il contrasto a tutte le forme di violenza sulle donne e i minori”, con gli obiettivi di: 1) conoscere e monitorare il fenomeno della violenza; 2) informare e sensibilizzare ; 3) applicare misure di contrasto alla violenza.

Non capita spesso di vedere riuniti, e confrontarsi, ad uno stesso tavolo, medici, avvocati, rappresentanti della polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri, magistrati, volontarie delle associazioni che si occupano di accogliere le donne vittime di violenza, rappresentanti delle Istituzioni, amministratori locali. Soprattutto, non capita che tutte quelle persone, rappresentanti un’Istituzione pubblica, riconoscano le responsabilità di un “sistema” che non tutela sufficientemente le vittime, non punisce i colpevoli e non aiuta psicologicamentele une a ricostruire sé stesse, gli altri ad imparare a rispettare la libertà e la dignità altrui. Un sistema nel quale, per esempio, un processo per stalking viene rinviato di un anno e pure di più, con grave pericolo per la vittima, considerando che le misure cautelari non possono durare in eterno e che, quindi, il bombardamento di telefonate, gli appostamenti, i pedinamenti, già di per sé lesivi della libertà di una persona e snervanti psicologicamente, possono trasformarsi in atti molto più gravi. Un sistema nel quale, per ammissione degli stessi medici, una vittima di violenza sessuale è “un caso rognoso”, perché implica una serie di doveri e responsabilità da parte dei sanitari che non tutti sono disposti ad assumersi. Un sistema nel quale la limitazione della discussione del problema alle sole donne non aiuta e l’unica via possibile è il dialogo, il confronto tra uomini e donne, rappresentanti delle istituzioni e cittadini, operatori sanitari, operatori del diritto, forze dell’ordine, tutti insieme.

In queste rare e importanti occasioni, si impara tanto e ci si forma, soprattutto umanamente. Per esempio, si impara che il fenomeno della violenza sulle donne è molto diffuso nelle classi sociali “abbienti” (non mi piace parlare di classi sociali ma serve a rendere l’idea) però proprio in quegli ambiti le donne, per vergogna, esitano maggiormente a denunciare, spesso non denunciano affatto e si rivolgono solo alle associazioni che le ascoltano e le accolgono. Si impara che le donne straniere, pur nelle mille difficoltà che devono affrontare, in situazioni simili sono paradossalmente un po’ agevolate poiché nel momento in cui viene loro spiegato il diritto di denunciare la violenza e la possibilità di essere accolte insieme ai propri figli, in luoghi protetti e segreti, abbandonano la casa-inferno, e lo fanno con maggiore facilità, non avendo altri legami familiari o sociali forti che le trattengono.

Si impara che l’episodio di violenza non è mai improvviso, ma è sempre preceduto da altri atti, perciò se una donna si reca al pronto soccorso ogni settimana perché le scale di casa la fanno scivolare sempre o le porte le spappolano continuamente il viso, forse è il caso che il medico si faccia qualche domanda. Negli ospedali degli Stati Uniti, per esempio, sottopongono a tutte le donne che si recano al pronto soccorso un questionario con diverse domande, tra le quali alcune relative alle violenze domestiche, in modo tale da far sentire la vittima più libera di raccontare la propria situazione.

Si impara che oggi esiste un codice rosa al pronto soccorso per le donne presunte vittime di violenza.

Purtroppo,  si ha la tristissima conferma che il luogo dell’infelicità, spesso, è la casa in cui si vive, condivisa con il proprio carnefice, la maggior parte delle violenze, infatti, sono messe in atto dal coniuge o dal compagno. Si imparano tante altre cose, forse troppe da inserire in un unico post, ma tra le tante: educhiamo i bambini al rispetto degli altri, parliamo tra di noi. E ascoltiamoci.

Il numero verde nazionale antiviolenza: 1522.

Il Protocollo:
Protocollo_intesa_violenza_donne(1)

Nei panni di una donna.

17 Gen

jessica rabbitIl Procuratore di Bergamo, intervistato sul recente caso di stupro nei confronti di una ragazza nella sua città, ha esortato le donne ad essere più prudenti, ad avere senso pratico e, di conseguenza, a non uscire da sole la sera. Originale. Sono sicura che l’intento del procuratore Dettori fosse sinceramente buono ma, ahinoi, fa capire lo stato di arretratezza nel quale ancora siamo costretti, uomini e donne, a vivere e a sopravvivere, una condizione di certo non degna di un Paese moderno e civile come riteniamo sia l’Italia. Un consiglio del genere si potrebbe accettare in altri contesti: per esempio, nella giungla, dall’imbrunire in poi, è consigliabile non farsi vedere dai predatori notturni; presumibilmente, anche nell’Età della Pietra, per le australopiteche sarebbe stato opportuno rintanarsi nelle caverne al calar del sole, per evitare le attenzioni di qualche australopiteco allupato, ma in un Paese così avanzato da permettersi di esportare democrazia e libertà in altri Paesi considerati sottosviluppati, da avere pompose “commissioni per le pari opportunità”, no, non si può accettare, non si deve accettare, per il semplice motivo che vivere, anche quando è sera, è una necessità, ed è una manifestazione di libertà, per gli uomini e per le donne. Ma gli uomini, alcuni, sembrano non saperlo o dimenticarlo, e forse, per ricordarlo o per comprenderlo, dovrebbero mettersi nei panni delle donne e chiedersi per quale motivo un uomo può camminare tranquillo la sera mentre una donna dovrebbe non farlo o avere un accompagnatore, come se fosse incapace? La libertà non ha sesso e non ha orari. Nei panni di una donna, sentirebbero il fastidio che talvolta si prova quando si deve, necessariamente, attraversare una strada poco illuminata, per arrivare al parcheggio, per arrivare a casa, per raggiungere la fermata dell’autobus, e non per cercare sesso. Il fastidio è doppio, per il potenziale rischio di trovare un deficiente e per la paura stessa del rischio, che ti fa sentire una mezza scema incapace di difendersi. Ma la soluzione non può essere non uscire o farsi accompagnare. Nei panni di una donna, capirebbero il sentimento sgradevole che provoca un “corteggiamento” insistente e non voluto, che non lusinga ma irrita e, se dura troppo, preoccupa. E la soluzione non può essere quella di nascondersi sotto un burqa per evitare attenzioni. Nei panni di una donna, saprebbero che noi facciamo esami di coscienza più di quanto si possa immaginare, ma non lo diciamo perché anche il minimo segno di autocritica viene strumentalizzato ed usato a scapito di chi subisce aggressioni e soprusi, è il “sì, però” utilizzato per giustificare lo stupratore e concedergli una riduzione della pena o gli arresti domiciliari. Nei panni di una donna, magari il Procuratore Dettori chiederebbe alle Istituzioni di agevolare il dialogo tra uomini e donne, per iniziare un rinnovamento culturale e, in attesa del cambiamento, chiederebbe l’organizzazione di corsi gratuiti di autodifesa, e capirebbe che la libertà non ha sesso e non ha orari.

Slutwalks: siamo tutte puttane.

13 Mag

Sembra incredibile dover sentire, ancora oggi, in un’epoca in cui la clava è ormai appesa al chiodo, frasi del genere “evitate di vestirvi come puttane se non volete essere violentate”, come se esistesse un diritto di stupro libero nei confronti delle puttane e come se esistesse un abbigliamento femminile anti-violenza. Eppure, questo è il consiglio più intelligente che ha saputo dare un poliziotto alle studentesse dell’università di  Toronto, suscitando le reazioni delle donne dall’altra parte dell’oceano, che si sono riunite per uno slutwalk (slut significa puttana, è lo stesso termine usato dal poliziotto) e fra qualche tempo la “passeggiata” in minigonna e calze a rete, arriverà anche in Europa, a Edimburgo, e ad Amsterdam, tanto per far sapere che certi ragionamenti non si possono sentire e nemmeno accettare. Purtroppo, sono, ancora oggi, sempre le donne a dover imparare a difendersi, a vestirsi, a parlare, a guardare in modo da non scatenare la libido dell’uomo molesto o col cervello malato, sempre le donne a doversi giustificare per quella gonna troppo corta o troppo stretta, per quella calza troppo a rete, per quel tacco troppo sottile e troppo alto, per quello stupro. Gli uomini, se nessuno glielo ha insegnato in famiglia, non devono seguire corsi per imparare a rispettare quell’essere che gli passa davanti vestito con la minigonna e le calze a rete, non devono indossare un abbigliamento che controlli i loro istinti irrefrenabili, gli uomini (quelli bacati) casomai devono difendersi dagli sguardi provocanti delle donne, dalle loro gambe insidiose, dalle parole maliziose, e se proprio non riescono a trattenersi, be’, pazienza, non è colpa loro. C’è qualcosa di profondamente ingiusto in tutto questo e di terribilmente dannoso per la società, per la vita in comune di uomini e donne, per la felicità degli esseri umani, poiché scatena la diffidenza e la rabbia delle donne che, spesso, la riversano sugli uomini, alimentando una catena infinita di infelicità, che può essere interrotta solo col dialogo, anche con le calze a rete.

http://www.slutwalktoronto.com/

http://ladiesinexile.blogspot.com/2011/04/slut-walk-protest-after-misguided.html

I reati relativi.

29 Set

I “reati relativi” dovrebbero essere introdotti come nuova categoria di reati previsti dalla legge, tra quelli che, sebbene siano orrendi, non vengono considerati tanto orrendi se il loro autore è un genio/ricco/famoso/potente. Mi riferisco al caso di Roman Polanski, agli appelli in suo favore e all’atteggiamento benevolo della Francia che, a quanto pare, ama catalogare come semplici errori i reati commessi fuori dal suo territorio, e non parliamo del furto di una mela. Nel 1977, il regista Roman Polanski aveva 44 anni e aveva già sofferto tanto (aveva subito l’occupazione nazista in Polonia; fuggito negli Stati Uniti, sua moglie era stata uccisa dai satanisti di Manson quando era all’ottavo mese di gravidanza) mentre Samantha Gailey aveva 13 anni, faceva la modella, non aveva voglia di soffrire e, probabilmente, pensava che le foto scattate da quel regista famoso, per l’edizione francese di Vogue, avrebbero aiutato la sua carriera, un pensiero logico, considerando la notorietà del personaggio. Tutto bene, fino a quando il regista famoso, durante uno di quei servizi fotografici, le propina un sedativo e, nonostante i rifiuti della ragazzina, inizia a farle di tutto, insomma, il gallo quarantaquattrenne, con la giovanissima pollastrella, non si fa mancare proprio nulla. Polanski, accusato dal Tribunale di Los Angeles, raggiunge un accordo con il procuratore: la libertà in cambio della sua confessione, e lo “sconto” sulle accuse di stupro con uso di stupefacenti, perversione e sodomia, peccato che il giudice non sia d’accordo e lo condanni, senza dare peso a quell’accordo. E così, Polanski fugge in Francia per evitare il carcere e passano trent’anni, durante i quali la vittima dello stupro riuscirà anche a perdonare il suo carnefice. Come sempre succede in questi casi, il violentatore ha usato tutti gli argomenti possibili per evitare la condanna, dall’ovvio riferimento al consenso della ragazzina, “era consenziente, aveva già avuto altre storie” alla strumentalizzazione da parte della madre di lei, dimenticando che il divario tra un ultraquarantenne ed una tredicenne non può essere colmato con un sì, drogato e poco convinto. Per fortuna, ci sono i politici francesi e gli intellettuali a consolare, difendere, commiserare Polanski, con una forza che, sinceramente, vorrei vedere per altre cause. In questo caso, condanna o meno, il silenzio sarebbe più che sufficiente.

Ancora spifferi.

12 Lug

Che noia, che barba, che barba, che noia occuparsi di politica anche in una splendida giornata di luglio, con la pelle mezzo arrossata dal sole (solo perché è finito l’effetto dell’abbronzante, mannaggia) e con il rumore del mare in lontananza. Però, mi tocca. Infatti, sento ancora degli spifferi: qualche tempo fa, avevo scritto del famoso modo di dire che si usa dalle mie parti “non ce n’è uno che chiuda la porta”, per indicare come all’interno di un gruppo non ci sia una persona abbastanza saggia da capire che una porta è aperta e bisogna chiuderla. Ecco, stamattina ho letto le dichiarazioni del senatore Marino, candidato insieme a Bersani e Franceschini alle primarie del PD, riguardo alla vicenda degli stupri commessi a Roma, per i quali è stato arrestato un uomo che è pure il coordinatore di un circolo del Partito Democratico. Il senatore Marino  (il quale, tra l’altro, in occasione della vicenda di Eluana Englaro, aveva dimostrato intelligenza proponendo l’appello per il testamento biologico, che avevo anche firmato) ha pensato che la cosa più importante da pensare e da dichiarare, a proposito delle violenze, fosse: “trovo davvero incredibile che un criminale che già 13 anni fa era stato coinvolto in odiosi reati di violenza sessuale possa essere arrivato a coordinare un circolo del Pd. È evidente – ha detto Marino in una nota – che nel Pd abbiamo una questione morale grande come una montagna, che non può essere ignorata né sottovalutata”. Ora, a parte il fatto che l’uomo incriminato (ancora da accertare definitivamente la sua colpevolezza, per chiarezza) conduceva due vite totalmente separate, delle quali nessuno aveva conoscenza, a parte il fatto che uno non ha scritta in fronte la “S” di stupratore, a parte tutto, avrei apprezzato maggiormente, da parte di un uomo che si candida a diventare il leader di un partito, parole di solidarietà per le vittime, idee su come educare le persone al rispetto delle donne, parole di apprezzamento nei confronti di chi ha svolto le indagini, o il suo punto di vista su un essere umano disturbato, che non riesce a controllare le sue pulsioni, la sua “malattia”, avrei apprezzato tutto, tranne le esternazioni sulla questione morale del partito. La porta è ancora aperta.