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House of Cats – Gli intrighi della polpetta.

1 Lug

funny-cats-cartoon-with-panel-gatti-buffi-con-pannelloPiù audace di Temptation Island, più torbida di Game of Thrones, più intrigante di House of Cards,  è in arrivo su questo canale, l’imperdibile docu-serie interamente dedicata ai giochi di potere e alle avventure magiche della colonia felina più prolifica al mondo ( o_O ) perfino più dei conigli che allevava mia nonna, ecco a voi:
House of Cats – Gli intrighi della polpetta.

Trama.

Agli albori del ventunesimo secolo, in una calda mattina d’estate, una  bellissima e misteriosa creatura si presenta all’uscio di una dimora di un paese molto lontano, abitata da umani e da una creatura altrettanto misteriosa, bellissima e intelligentissima, volgarmente chiamata cane.

La misteriosa creatura, dal folto pelo nero e dai modi eleganti, si presenta con poche, educatissime parole “buongiorno, stimatissimi signori, io sono un gatto” e inizia a fissare gli umani con i suoi occhi verdi. In realtà, li sta ipnotizzando ma l’unico ad accorgersi di ciò che sta avvenendo è il cane di casa che, senza troppi giri di parole, caccia via l’ospite.

Con la dipartita dell’amatissimo cane, la creatura misteriosa si installa definitivamente presso la dimora umana, condividendo l’area verde con un nuovo cane, di grande carattere ma dal fisico non troppo prestante.

Così, ha inizio la lenta ma inesorabile colonizzazione della terra occupata dagli umani, senza che questi si accorgano di ciò che sta accadendo, come sempre.

Quindi, al primo gatto si aggiunge un altro gatto, poi un altro, e poi un altro ancora, fino a formare una vera e propria colonia, che ha un solo scopo: impossessarsi della Grande Polpetta, prendere il potere, rendere gli uomini schiavi e iniziare da quel luogo la conquista del mondo. Riusciranno nel loro diabolico intento?

Protagonisti.

Dart Liller

Dart Liller – Il vecchio genio del Male. Silenzioso, combattente di lunga esperienza, implacabile con il nemico, conosce gli umani e sa che non bisogna fidarsi di loro, forse è per questo che continua la lotta per il dominio totale.

 

 

 

Puncia

Puncia

Puncia – La coraggiosa custode della dimora. Ha capito il disegno dei colonizzatori e cerca di difendere il territorio, sebbene il fisico non l’aiuti. Incredibilmente, entra in sintonia con Bianca, che la sosterrà nei momenti difficili, e nonostante il divieto imposto dalla colonia.

 

 

Regina della Via -  La Talebana

Regina della Via – La Talebana

Regina della Via – meglio nota come La Talebana, e questo dice tutto. Inafferrabile e spietata, ha oppresso il vecchio cagnolino domestico per mesi, e continua a sfornare colonizzatori come se dovesse conquistare l’intero universo. Qui con il figlio Paco.

 

 

 

Barè

Barè – Il gatto mutante, nato maschio si trasforma in femmina al solo scopo di far nascere milioni di colonizzatori. Nella mutazione qualcosa è andato storto e non fa un “miao” come tutti i gatti ma “miauuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu” senza una fine. Figlia della Talebana.

 

 

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Bianca

Bianca – Meglio conosciuta come La Stratega. Come tutti i gatti neri, è affabile, giocherellona, terribilmente affettuosa con gli umani. Naturalmente, è una strategia della guerra di conquista. Figlia della Talebana.

 

 

Paco e DeLucia

Paco e DeLucia

I Gemelli Paco e DeLucia. Figli della Talebana. Paco è ancora terribilmente timido, DeLucia ha un incredibile istinto materno, e pur essendo di pochi mesi più grande dei suoi nipotini, figli di Barè, li accudisce come se fosse una balia. Sono i misteri dei colonizzatori.

 

 

 

Pinky, Piggy, Drago, 100%Cotone,  DarkSnow

Pinky, Piggy, Drago, 100%Cotone, DarkSnow

Pinky, Piggy, Drago, 100%Cotone, DarkSnow – Figli di Barè, nipoti della Talebana. Studiano l’ABC della colonizzazione, fingendo di dormire diciotto ore al giorno.

 

 

 

 

 

 

Stay tuned staytuned

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (XIV Puntata – La Cascata Silenziosa)

8 Mag

langhe2.jpg_2008729104445_langhe2«Sai qual è il problema con la Silenziosa, sore’?».
«No, non lo so, non l’ho mai vista…».
«Il problema è che se non vedi quella, non riesci ad andare alla Cascata della Luce, quella che realizza i desideri più grandi. Però per vedere la Silenziosa, bisogna stare tranquilli e concentrarsi, mentre noi siamo abituati a muoverci, ad andare avanti e indietro per il Bosco, a fare delle cose, a percorrere sentieri, radure, arrampicarci, scivolare negli avvallamenti, tuffarci nei torrenti. Per arrivare alle altre Cascate, il movimento va bene ma con la Silenziosa è tutta un’altra storia».
«Frate’, me la stai facendo complicata…».
«Ma lo è! Io ho impiegato tanto tempo prima di vedere la Cascata Silenziosa e realizzare il mio desiderio più grande».
«Io non posso aspettare troppi tempo per andare alla Cascata della Luce, voglio realizzare il mio grande desiderio».
«Ti confesso una cosa, sore’, una cosa che non ho mai detto a nessuno. Però non voglio che ci sentano, ti va di andare al Giardino delle Nuvole?».
«Certo che mi va, andiamo».
Il Giardino delle Nuvole è un piccolo promontorio, posto quasi ai confini del Bosco, molto particolare, poiché in quel punto, in alcune giornate, alla fine dell’inverno e all’inizio della primavera, le nuvole scendono fino a toccare la terra e avvolgono ogni cosa, come una soffice ragnatela impalpabile.
«Qui va meglio», disse Nando.
Non l’avevo mai visto così triste.
«Sai perché, per me è stato così difficile vedere la Cascata Silenziosa?».
«No, forse perché è lontana?».
«No, non è quello il motivo. Ti ricordi cosa dice la Grande Quercia, a proposito delle Cascate e dei desideri?». Continua a leggere

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (XIII Puntata – La Cascata delle Ombre)

23 Apr

giraffa7Una sera, al crepuscolo, dopo aver preparato il mio giaciglio per la notte, con foglie e rametti secchi, rimasi a guardare l’orizzonte e la luna, che iniziava ad accendersi per noi. Era una sera un po’ così, una di quelle in cui non riuscivo a dormire e pensavo, pensavo alla mia famiglia, ai miei genitori, ai miei fratelli, alla mia vecchia casa, l’Africa. Non che nel Bosco mi trovassi male, al contrario, avevo conosciuto nuovi amici e ci volevamo tanto bene, avevo cibo e acqua in abbondanza, nulla mi mancava eppure…

Eppure, sentivo una cosa in pancia, una specie di nostalgia, per tutto quello che avevo lasciato e per tutto quello che ero stata un tempo.  La malinconia era venuta a farmi visita, ancora una volta.  In questi casi, qui nel Bosco, chiamiamo gli amici o facciamo una passeggiata ma a quell’ora, quasi tutti gli abitanti dormivano, mica potevo svegliare Nando e dirgli che avevo la nostalgia nella pancia! Così, rimasi a guardare il cielo diventare sempre più scuro e, ben presto, tutto diventò buio intorno a me, solo le stelle e la grande luna mi facevano compagnia. Forse, qualche lacrima scese silenziosamente dai miei occhi, ma non lo ricordo bene, le lacrime non vogliono mai essere ricordate, sono fatte così, arrivano e poi si fanno dimenticare.

images (1)Mentre iniziavo a contare le stelle, nella speranza di prendere sonno, una voce dolce iniziò a circolare nella mia testa: «ricorda sempre che conservi un raggio di sole nel sacchetto di vento, cercalo ogni volta che vedrai solo buio intorno a te, cercalo e ti indicherà la strada», era la voce di mia madre! Le sue ultime parole, prima di separarci. In quel momento, vedevo solo buio intorno a me. Allora, cercai il sacchetto di vento con dentro il raggio di sole, che mia madre aveva confezionato per me tanto tempo prima. Era ancora lì, ben conservato sotto il mio manto. Lo presi tra le zampe, era leggero, come il vento di cui era fatto, il mio cuore iniziò a rasserenarsi, come per incanto. Appena lo aprii e vidi il mio raggio di sole, la malinconia svanì del tutto, abbandonò la mia pancia, se ne andò chissà dove, e provai solo una grande gioia, come se in quel momento avessi ritrovato la mia famiglia, la mia vecchia casa, la giraffa che ero stata e si fossero riunite al mio presente. Guardai per l’ultima volta il mio raggio di sole e, poi, riposi il sacchetto di vento nuovamente sotto il mio manto. Mi sentivo serena, ora il buio non era così scuro e non mi faceva sentire sola però, c’era un problema: ancora, non avevo sonno.  Continua a leggere

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (X Puntata – La Cascata dei Ciclamini)

15 Mar

foresta fiori viola belgio«Isadora?».
«Sì?».
«Credo di essere pronta».
«Credi o lo sei?».
«Sono pronta».
«Bene. Ricorda le regole delle Cascate: si inizia dalla Cascata più semplice da raggiungere, per poi arrivare a quella più lontana, con il tragitto più difficile e avventuroso, la Cascata della Luce. Per ogni Cascata, potrai esprimere un desiderio, proporzionato alla difficoltà del percorso. Perciò, man mano che proseguirai, potrai esprimere desideri sempre più grandi e più importanti per te. Ricorda, infine, la regola fondamentale: credi nella possibilità di realizzare il tuo desiderio, solo così la Cascata potrà aiutarti».

E così, anch’io, iniziai i miei viaggi verso le Cascate del Bosco incantato.  Ancora oggi, sebbene abbiano esaudito tutti i miei desideri, vado a trovarle, perché mi emoziono sempre ad ammirare la loro bellezza, la grazia e la forza con cui riescono a tuffarsi e anche perché, in fondo, qualche piccolo sogno da realizzare ce l’ho sempre.

Come sapete, la prima Cascata che visitai, insieme all’amica Isadora, fu quella della Grande Quercia, piccola ma incantevole, con il piccolo laghetto di acqua limpida e fresca.

Poi, fu la volta della Cascata dei Ciclamini.  Continua a leggere

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (IX Puntata – La giraffa Cercalù)

4 Feb

giraffa7«Cari amici, sono contenta di raccontarvi l’antica leggenda di Cercalù, la mia antenata, la prima giraffa arrivata sulla Terra,  la Grande Giraffa Madre. È una storia tramandata dai padri e dalle madri ai propri figli e ogni giraffa la impara a menadito, per poi raccontarla, a sua volta, ai propri discendenti. Cercalù era una piccola giraffa, con il pelo giallo e le macchie marroni, con le zampe lunghe, il corpo massiccio, la lunga coda, le corna pelose e il collo…corto, o meglio, più corto rispetto a quello che noi tutte abbiamo oggi, diciamo lungo come il collo delle zebre. La piccola Cercalù era nata in una notte di luna piena e, fin da piccola, aveva espresso un unico desiderio: arrivare fino alla luna, soltanto per sfiorarla con il muso.

Naturalmente, tutti la scoraggiavano, la sua famiglia, i suoi amici, addirittura i conoscenti. Le scimmie, chissà perché, erano le più agguerrite, dicevano «è impossibile che una giraffa dia un bacio alla luna, I-M-P-O-S-S-I-B-I-L-E, mettitelo in testa, piccola sciocchina».

Ma anche gli elefanti, considerati i più saggi della savana, le consigliavano di lasciar perdere «Giraffa, caro tesoro, tutti noi siamo troppo piccoli per poter arrivare alla luna, possiamo solo ammirarla da quaggiù. Vai per la tua strada e non pensarci più», così parlò il Vecchio Elefante.

Però, la mia antenata, forse anche per colpa del nome, che un po’ ricordava la luna, non voleva sentire ragioni, anzi, secondo gli abitanti della savana, non sapeva proprio cosa fosse la ragione,«prima o poi, arriverò fin lassù, vedrete!».

Immaginava i modi più difficili per arrivarci: un ponte fatto di rami d’acacia; una torre altissima, realizzata con tutti gli animali della savana, messi uno sopra l’altro; l’allungamento del suo collo, con tanti esercizi quotidiani.

Ogni giorno,  si allenava ad allungare il proprio collo, con disciplina, tenacia, costanza.

mordillo-giraffe luna

Narra la leggenda che un giorno, mentre Cercalù era intenta a consumare la cena in compagnia del suo amico facocero Metemagno, il quale non aveva mai desiderato né baciare né abbracciare nessuna palla bianca nel cielo, lui le disse, tra un boccone e l’altro, “guarda, secondo me, è più semplice di quanto pensi, devi solo rilassarti, stare tranquilla, non pensarci troppo, ecco”. Quelle parole la colpirono molto.

Da quel momento, Cercalù iniziò a ripetere la frase del suo amico, “è più semplice di quanto pensi”, tutti i giorni e tutte le notti. Quasi non dormiva più, faceva gli esercizi per allungare il collo e ripeteva la sua frase, e in quel modo, si tranquillizzava. Però, il modo per arrivare alla gigantesca guancia lunare, proprio non le veniva in mente. E così, trascorsero le ore, i giorni, gli anni.

Cercalù continuava con i suoi esercizi per allungare il collo, «hop, hop, hop, vedrai, vedrai che ci arriverò» e, lentamente, il suo collo diventava sempre più lungo, fino ad arrivare alla cima dei grandi alberi di acacia, con enorme stupore di tutti gli abitanti della savana. Ma, nonostante il suo collo fosse diventato sempre più lungo, Cercalù non riusciva ad arrivare alla grande luna, era sempre troppo lontana.

giraffa madagascar

Fu così che una notte, la mia antenata, ormai diventata adulta, e quasi rassegnata, volle fare un ultimo tentativo e si rivolse direttamente alla luna, con queste parole: «grande Luna, in una lontana notte d’estate, tu mi hai vista venire al mondo, mi hai guardata con i tuoi grandi occhi dolci, hai vegliato su di me in tutti questi anni, come una madre, ma non hai mai voluto che venissi lassù, da te, ed io rimango sempre troppo piccola per salire da sola e darti solo un bacio, proprio come si fa con le mamme. Grande luna, indicami la strada e la seguirò» e si addormentò.

Secondo la leggenda, quella stessa notte, Cercalù si svegliò, dopo aver sentito uno strano fruscio accanto a sé, e appena aprì gli occhi si rese conto che il cielo era diventato completamente buio, senza nemmeno uno spicchio di luna, mezza luna, tre quarti di luna, niente di niente, era come se la luna se ne fosse andata in vacanza. In quel momento, pensò “ecco, ho sbagliato a parlare alla luna. Avevano ragione tutti gli altri, è meglio lasciar perdere, tanto è solo una palla bianca, anche un po’ strana, addirittura più strana di me” e, delusa, decise di tornare a dormire.

Ma, proprio mentre stava per ricominciare a sognare, vide un’insolita luce spuntare dal manto di foglie accanto a lei.

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Incuriosita, lo smosse un poco con la zampa e, all’improvviso, vide l’enorme palla bianca e luminosa che la guardava divertita e, placidamente adagiata sulla terra, le disse, con i suoi occhi dolci: “vedi, cara Giraffa, io ti ho sempre ascoltata e ho sempre vegliato su di te, che sei la mia figlioccia adorata, ma per realizzare il tuo grande desiderio,dovevi prima crescere, diventare forte, fare il tuo meglio per diventare la bellissima creatura con il collo lungo che ora sei. Dammi un bacio, Giraffa cara, e torna a sognare”. E così fece, Cercalù diede un bacio alla luna e si addormentò.

Da quella notte, tutti gli abitanti della savana compresero la sua forza e il suo coraggio, ne ebbero quasi timore, e la trattarono con grande rispetto.

La nostra antenata diventò, così, per via del suo lungo collo e del coraggio dimostrato, la sentinella e la custode della savana, con l’mpegno di tramandare i suoi doni alla propria discendenza.

Ecco, cari amici, questa è la storia della nostra grande famiglia».

I miei amici, disposti intorno alla grande Quercia, rimasero in silenzio per un po’. Mi

guardarono senza fiatare ed io non capivo se la mia storia li avesse annoiati al punto

da farli dormire con gli occhi aperti o chissà cos’altro. Il primo a rompere il silenzio

fu Nando, «ehi, sore’, ma questa è una storia super bella!!! Finalmente, ho capito perché sei strana! Hai ereditato tutto dalla tua antenata!».

E Inut, «cara Giraffa, direi che la mia curiosità è stata soddisfatta in pieno. La tua antenata è stata molto coraggiosa a credere fino all’ultimo di poter dare un bacio alla luna e, alla fine, è riuscita nel suo intento. Hai una grande eredità da portare avanti: credere sempre in quello che fai».

I lombrichi in coro, «oh, Giraffa, ma è una ftoria belliffima! Anche il Grande Lombrico, il noftro antenato, è ftato molto coraggiofo, un giorno riufì a non farfi mangiare da un merlo!».

Infine la Grande Quercia, «cara Giraffa, grazie per la tua storia. Ora conosciamo un po’ meglio le tue origini, la tua grande e antica famiglia. Come ha detto Inut, hai una grande eredità da tramandare, fanne tesoro, sarà la tua forza».

Come diceva mio padre a noi piccole giraffe «noi apparteniamo al glorioso popolo delle giraffe, forte e coraggioso, non dimenticatelo mai!». Non l’ho mai dimenticato.

Anche questo è amore.

24 Set

Gianni guardava la piccola Guendalina scartare i regali e pensava che, in fondo, le cose non gli erano andate così male: aveva una bella casa, due figli che adorava, Gianluca e la piccola Guendalina, una moglie, Paola, della quale non sopportava nemmeno l’odore, un buon lavoro, amici e parenti acquisiti che, a volte, rallegravano la sua tavola e, spesso, approfittavano della sua generosità. Le cose non erano andate così male per lui, anche se quella non era la vita che aveva sognato e desiderato tanti anni prima, anche se quella non era la donna di cui si era follemente innamorato, anche se gli occhi di Paola non brillavano quando lo vedevano ma brillavano solo di lacrime quando aveva bisogno dei suoi soldi, quegli occhi non brillavano nemmeno dopo che avevano fatto l’amore, per abitudine e per non perdere l’esercizio, e Gianni aveva smesso di chiedersi cosa mai avrebbe dovuto fare per vederli illuminati, da tempo la cosa non lo interessava. Chissà, poi, se l’aveva mai amata. Erano cresciuti insieme, lui con la sua voglia di conoscere il mondo, lei con la sua voglia di stare attaccata al proprio microcosmo, molto micro, senza altri interessi all’infuori delle riviste di moda. Ma nemmeno questo lo interessava più, gli interessavano i suoi figli, soprattutto Gianluca che ormai era un adolescente e aveva bisogno di qualcuno che badasse a lui, considerata la distrazione della madre, ora più che mai interessata solo all’abbigliamento dell’ultima arrivata, e gli interessava avere una vita tranquilla, nient’altro. Non aveva più pensato a Laura, alla follia che si era impossessata di lui molti anni prima, qualche tempo prima della data delle sue nozze ma quel pomeriggio, in un programma televisivo, aveva visto una donna che le somigliava in modo incredibile e si era chiesto se il tempo avesse infierito su quel viso d’angelo oppure se l’avesse trattato con gentilezza. Eh, già, perché lei era bella, era bella come il sole, aveva una carriera come modella e, solo per un caso, quell’estate era arrivata nella sua piccola città per trascorrere le vacanze al mare con un’amica e si erano conosciuti proprio in spiaggia, sguardi, parole e amore folle, pazzo, incontrollabile. Lei era giovane, dolce, innamoratissima. Lui un trentenne bello, inquieto e insoddisfatto della propria vita. L’estate era finita presto ma non la follia, lei era tornata a Milano, lui la raggiungeva appena possibile e, praticamente, era accaduto ogni settimana, per tutto l’inverno, tutta la primavera, tutta l’estate successiva, fino ad un mese prima del matrimonio, quando qualcuno aveva raccontato ogni cosa alla sua futura sposa la quale, impassibile, aveva fatto di niente, com’era sua abitudine e la follia di un’estate era stata catalogata come un banalissimo errore. Un errore che la sorella di Gianni, Clelia, ricorda ancora con gli occhi umidi, perché lei era l’unica a sapere di quella storia fin dall’inizio, insieme alla sua bambina, Priscilla, alla quale lo zio Gianni commissionava la preparazione di fogli da lettera con le righe create dalla bambina, con le sue penne colorate e profumate. Clelia era l’unica persona con la quale Gianni si confidava, forse per via della sua storia matrimoniale piuttosto travagliata, l’unica che lo aveva accompagnato a scegliere l’abito per il matrimonio: “vuoi sapere una cosa, Clelia? La vuoi sapere”, “cosa?”,noi adesso stiamo camminando su questa strada, tu vedi le persone che passano, vero? Vedi le vetrine dei negozi, giusto? Io vedo lei, la vedo qui, davanti a me, lo capisci? La vedo, allungo la mano e la tocco, è qui davanti ai miei occhi e mi sorride, bella, con i suoi capelli sottili e biondi, innamorata”, “ma sei sicuro di quello che stai facendo?”, “ormai..è andata così” e, dopo essersi asciugato le lacrime era entrato insieme alla sorella nel negozio di abiti da sposa per scegliere l’abito giusto per le nozze.

Non aveva più pensato a Laura, ma quel pomeriggio, quella donna in tv gliel’aveva ricordata e la sera, durante la festa per il compleanno della piccola Guendalina, si era seduto accanto a Priscilla, ormai cresciuta e inquieta come e, forse, più di lui: “ricordi le tue penne colorate e profumate?”, “sì, certo!”, “che fine hanno fatto?”, “è passato tanto tempo, credo di averle buttate via…”, “hai fatto bene, è andata così”.

Il crimine secondo Ringrazio Deledda.

18 Ago

smontataSul monte torna il grande scrittore Ringrazio Deledda, la penna, o la matita? O la tastiera?, più acuta, più ironica, più surreale della capitale del Mediterraneo (Kasteddu – Cagliari) che stavolta si occupa di un crimine assai diffuso nella capitale: il rapimento di auto indifese. Per chi non conoscesse il cagliaritano, ho preparato un piccolo vocabolario, così, per capirci qualcosa 😉

 

Crimini impuniti nella mitica capitale del Mediterraneo!

Che bregungia!  Sarà stata cosa dei parigini che, si sa, ne odiano alla nostra grandevole Kasteddu, la mitica capitale del Mediterraneo, perché da loro il mare c’è solo a cartolina, sarà stata cosa di quei biddai burdi di quartesi che disperatamente fanno anche la festa della patata aggratis per portarne via gli abitanti, sarà stata anche cosa dei sassaresi che, con un caldo inconsapevole e lestofante, scendono ceri grandi come obelischi, a farne il miracolo la Madonna di farli avvicinare a Kasteddu e non ci riescono mai, che d’è impossibile, ma la nostra fantastichevole capitale del Mediterraneo che tutti ci invidiano è attanagliata perdutamente dal crimine. Sì, che d’è appropriatamente così. E non sono nemmeno quei quattro balossi di onesti commercianti di cose trovate per caso, ma che d’è un crimine fatto bene bene da chi governa questa povera città. Si avvicinano in silenzio, loro. Ci hanno uno o due pali, muzzicasurdi, che si riconoscono in quanto che portano un cappellino bianco, a visiera, ma si nascondono sempre. Dietro gli angoli, dietro i bidoni dell’aliga, dentro i portoni. Poi, alla coatta, ne saltano fuori veloci veloci, ci legano tutta bene bene alla macchina e la portano via a salame al loro covo, tutto controllato che non ci passa ago in su panèri. Che d’è un prodotto tipico di noi, di tutta la Sardegna. Che se non paghi, alla tua macchina non la vedi appropriatamente nemmeno a binocolo. E non c’è niente da fare, che d’è aicci. Alla settimana scorsa la disgrazia è capitata a Dedde Cambuli, conosciutissimo orèri con amigusu e amighixeddusu, ma tottu pren’e dinài, di babbo notaio de is meris, che voleva fare scioro con la sua cupè tutta fighetta a dragarne pischelle alla discoteca del Lido. Soprattutto a Suellen Cogotti, una slanciata verso il pavimento e i tacchi 14, con i capelli tutti gialli a mèsc, che lo colava troppo pure.   Ci aveva appena comprato L’Unione Sorda per ridere delle callonate spensierate che ci scrivono sopra e l’aveva messa al sedile e poi l’aveva messo poco poco, al suo cupè, al parcheggio con le strisce gialle di unu tottu strumpiau, che quando l’aveva vista si era messo tutto a gridare, per l’invidia appropriatamente. Ma già l’avevano presa, alla cupè, tutta legata a catene, saltandone felici come pioccusu, loro. E Dedde se ne era tutto buttato a terra dal dispiacere che anche quello tottu strumpiau se ne era tutto commosso e buttavano lacrime grosse a due euro. Ne aveva mandato a emissario a Lollo Depalmas, s’amigu che ne aveva esperienza, ma loro gli avevano detto di tornare che non c’era il capo che doveva decidere il riscatto. Però doveva dare subito subito 100 euro per il disturbo, ma s’amigu non lo aveva capito e loro si erano girati a ventola. Così avevano iniziato a togliergli, al cupè, lo specchietto e poi l’altro. Poi, che ne erano passate altre due ore e nessuno si era visto a dare i soldi, gli avevano tolto il cofano, sempre al cupè. De inzà, dopo altre tre ore, gli avevano mandato a dire con calincunu burdo che ne doveva dare, a loro, 5 milioni di euro se lo voleva vedere di nuovo, al cupè. Dedde era tutto disperato, che nemmeno il babbo di lui, che lo considerava uno scalandrone malu pèrdio ma i soldi glieli dava a secchi, non ne aveva, così, pronti in sa busciacca. E loro, burdi come pochi, ne avevano allora tolto prima una portiera e poi l’altra, al cupè. Alla fine ne erano andati currendi currendi dall’ispettore Gargiulo, alla questura, per sistemare alla cosa. Dopo averlo tutto coperto di regali, pure alla vestaglia tutta sexi per la sorella de issu, che tanto la disigiava, e anche alla canna da pesca telescopica per su pippìu della sorella, l’incomparabile ispettore Gargiulo ci aveva mandato all’agente Gianginetto Vacca, noto Giangi, burdo comenti a loro, a trattare la cosa. Giangi ci teneva molto ad essere servile e a mettersi in mostra con su meri, che gli veniva comodo, e aveva sistemato tutto. Con mille euro, a loro, gli tornavano il cupè. E già glielo avevano tornato, il cupè, a Dedde, tutto rubato dei pezzi che ne avevano tolto e non glieli davano più che se li erano dati a Otello Pistis, carrozziere a via Seruci che li commerciava e poi facevano a metà. E Dedde era tutto triste, che poi Suellen, alla discoteca del Lido, se la era tutta approppuddata William del Portogallo, uno burdo e deciso di Sant’Elia, che le cose se le sgobba fino a che non lo mettono con il sole a quadri di mala manèra

Ma ve ne sembra, o accallorato pubblico inconsapevole e iconoclasta della TV della Giraffa che ne vedete solo su questa TV queste belle scene di vita vissuta inverecondamente della mitologica capitale del Mediterraneo, che si può continuare così, troppo cattivi in questo modo? All’Unione Sorda lo dovevano tornare subito indietro, a Dedde, almeno a metterlo di buonumore, è o no?

Ringrazio Deledda

 Per capirci qualcosa:

bregungia – vergogna

biddai burdi – paesanotti figli illegittimi di qualcuno che non hanno mai conosciuto

scendono ceri – si fa riferimento alla suggestiva discesa dei Candelieri di Sassari

muzzicasurdi – personaggi infidi, apparentemente innocui, anche detti spina asutt’e ludu, ossia le spine sotto il fango

aliga – rifiuti

oreri – personaggio che passa il tempo contando le ore, richiede un certo impegno pure quello

amigu, amighixeddu – amico, amichetto

La nonna horror.

16 Lug

“…e quella sera, Maria andò in chiesa, per ascoltare la messa dedicata ai morti. Appena aprì la vecchia porta laterale, si trovò immersa in un’oscurità rischiarata solo dalla luce tenue delle candele..tutti erano in piedi e la guardarono con affetto, l’accolsero come se stessero aspettando proprio lei, per iniziare la funzione, però, Maria non conosceva quelle persone, c’erano uomini, donne, bambini, ed erano vestiti con abiti chiari, come la loro pelle, avevano un sorriso mesto, con una mano tenevano una candela mentre, con l’altra, le indicavano la strada verso il suo posto. Una delle persone che l’accolsero consegnò anche a lei una candela, che Maria tenne in mano per tutta la durata della messa, immersa in un’atmosfera diversa dal solito, più silenziosa e composta, con la sola luce delle candele. Maria teneva in mano la candela che, stranamente, non si era consumata, era una cosa proprio strana e, quando arrivò il momento di tornare a casa, pensò di doverla restituire alla donna che gliel’aveva consegnata ma la donna, senza dire una parola, sorrise e con un cenno le fece capire che poteva tenerla e così la mise dentro la borsetta. Quando uscì dalla chiesa, Maria si rese conto che era notte fonda, a quel tempo i lampioni erano pochi e la strada era illuminata dalla bianca luce della luna piena, quindi percorse il tragitto verso casa a passi veloci, perché con il buio i malintenzionati potevano combinare cose molto brutte, si sapeva. Finalmente, Maria arrivò a casa e accese la candela infilata nella bugia, quella che solitamente usava quando si svegliava la notte, e con un po’ di luce decise di guardare meglio la candela che le era stata donata in chiesa, così la portò fuori dalla borsetta, la mise accanto la candela e… si accorse che, in realtà, era l’osso di un morto…”. Ecco, questi erano i racconti dei pomeriggi estivi a casa di mia nonna, quando ero una bambina ultra fifona ma curiosa, li adoravo, adoravo tutte le storie che mi raccontava (nella maggior parte dei casi si trattava di racconti della sua vita abbastanza travagliata) ma i racconti horror erano i miei preferiti, erano quelli che non mi facevano dormire la notte e mi facevano guardare continuamente sotto il letto, per assicurarmi che non ci fosse qualche fantasma o zombie nascosto. I racconti di questo genere, in Sardegna, erano molto diffusi, soprattutto quando non c’era la televisione e le persone si riunivano, nelle notti d’estate, nelle strade del vicinato, quando ero piccola era un’usanza già un po’ dimenticata ma mia nonna la portava avanti con me, che ero un’ottima ascoltatrice, anzi pendevo letteralmente dalle sue labbra e ancora oggi, se capita, le racconta. Chissà perché le cose che fanno paura, quelle misteriose e incomprensibili, sono anche le più affascinanti. Non vedo l’ora di incontrare dei bimbetti curiosi, ih, ih.

Grembiuli, compassi e pistilloni.

4 Apr

omino_con_ombrelloIeri, a Cagliari, è morto il Gran Maestro che negli anni ‘80 diede una sistemata al Grande Oriente. Oggi si sono svolti i funerali e, guarda caso, da quelle parti (dove abita, tra l’altro, anche il nostro ex Governatore) passeggiava, per digerire il pollo schidionato che aveva mangiato a pranzo con due chili di patatine fritte, il nostro mitico Ringrazio Deledda che ha assistito ad una scena veramente grandevole. È o no?

P.S. naturalmente, ricordo che Ringrazio esiste e non sono io!

 

 

Enfiteutico ed esoterico funerale nella Capitale del Mediterraneo.

 

Pioveva a casino sulla mitologica e grandevole Capitale del Mediterraneo, quando tutti quanti, de pressi, ne andavano dai frati mercenari a darne il penultimo saluto a uno dei più straordinariamente incalcolabili esseri umani che ne abbiano illuminato il mondo a faro dalla nostra ineguagliabile Kasteddu.  L’ultimo saluto glielo davano poi con tottu cussa bestimenta a quadretti, rombi, trapezi, cerchietti e pistilloni volanti che ne sono i simboli di questa associazione dei professori di aritmetica delle scuole medie di cui ne era stato su professori più importante per gli ultimi centosessant’anni. “Un’ode per l’uomo che fu parte della storia del mondo intero. Che cos’è morire se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole e che cos’è emettere l’estremo respiro se non discioglierlo al vento?”*. “Lo piange Kasteddu, lo piange la Sardegna, lo piange il Mondo, lo piange anche chi non lo conosceva e non lo aveva mai sentito nominare” e lo piangevano anche in cielo e infatti ne pioveva a secchiate e a pitali.   Tutte cose così ne scrivevano all’insuperabile giornale casteddaio che a lui lo vedeva come il più insuperabile maestro di tutti.   Però ne era accaduto anche un increscioso incidente di qualcuno che ne voleva rubare la scena.  Quando infatti tutti ne accorrevano, a gip e suv, currendi currendi sotto alla pioggia e dietro a su baullu, uno di questi ha pensato bene di sciopparsi tutto quanto a terra senza muoversi più.  I casteddai, che sono mitici anche per questo, però non si sono fatti distrarre da questo qui.   Cicci, Ninni, Poppi, Kikki, Chicca, Tetesa, Pupo, Gnazino, Sesetta e Dedde hanno allargato le braccia, che d’era bregungia.   Giusto calincunu, per educazione, si è avvicinato con paracqua sobri, grandi come mongolfiere e tutti colorati, mentre unu allicchiriu ci buttava sopra l’impermeabile di calincun’artru, che il suo altrimenti si sporcava.  I casteddai che passavano, però, furbi, non si distravano: salutavano a quello lì scioppato a terra, salutavano anche quelli a paracqua che ormai stavano lì, ma poi se ne andavano dentro alla chiesa, che d’erano venuti per altro, non per questa scena. Si avvicinava anche un generale dei vigili urbani con la radio che ha chiamato anche due autisti del pulmann, che lo aspettavano lì.  Però non lo hanno tolto a pulmann, come magari facevano da altre parti: dopo un po’ ne arrivava infatti anche un’ambulanza con tutti vestiti di rosso e tutte le luci.  Questi qui prima sembrava che non lo volevano prendere, che avevano altro da fare, poi alla fine ne è arrivata una che si muoveva tutta e aveva i capelli sciarpati tutti gialli e ha detto loro di muoversi perché li vuole comandare a tutti.   Per non sentirla, lo hanno preso, a quello scioppato a terra, lo hanno messo tutto legato in un lettino come solo a Kasteddu lo sanno fare per non farlo cadere di nuovo e lo hanno portato dentro all’ambulanza che fuori pioveva incalcolabilmente.  De pressi allora ne è venuto fuori de sa cresia uno tutto correndo con un cancioffo con tutti questi quadretti, rombi, pistilloni e tottu cussa burumballa e glielo ha messo sopra.   Allora quelli che erano lì ne dicevano che d’era un altro di quei professori di aritmetica che d’era invidioso di lui perché l’altro era sempre stato prima di lui, anche se lui ne era più bravo e sapeva fare anche le moltiplicazioni al contrario.  Da una finestra di lì vicino uno lungo lungo, magro, con gli occhiali ma pochi capelli, tottu bestìu nieddu nieddu, li guardava serio serio.   E se li frastimava tutti, Lui a loro?  Se ne scioppavano anche altri?   E’ o no?

 

                              Ringrazio Deledda

 

* la poesia è vera, composta dal nipote del Gran Maestro e pubblicata tra i necrologi di oggi su L’Unione Sarda.

 

Per capire meglio:

 

de pressi – in fretta;

mercenari – naturalmente, sono i frati mercedari;

Kasteddu – Cagliari;

tottu cussa bestimenta – con il loro abito o vestito buono della domenica, della prima comunione, dei matrimoni, dei funerali, appunto;

pistilloni – sono i gechi ma dubito che il Grande Oriente abbia pistilloni come simboli..o forse sì??

currendi currendi – correndo, ma correndo proprio tanto;

su baullu – la bara;

sciopparsi – in genere sono i foruncoli a sciopparsi, in questo caso, un partecipante è stramazzato al suolo;

che d’era bregungia – era una vergogna;

paracqua – anche detto paraculu, è l’ombrello;

unu allicchiriu – un signore pulito e lucidato a dovere, come si conviene in queste occasioni;

de sa cresia – dalla chiesa;

cancioffo – un canovaccio ma, in questo caso, un grembiule.

Anche su panèri ha il suo onore (ovvero, la giurisprudenza secondo Ringrazio Deledda).

28 Giu

Sul monte, finalmente, torna la tastiera affilata come un trinciapollo di terza generazione, del più grande esponente del verismo sardo-del monte giraffesco, nonché autore di pregevoli ritratti di egue aspiranti veline (come si può notare nel disegno a sinistra). Stavolta, Ringrazio mostra, insieme all’acume kasteddaio, le sue doti di fine giurista, per illustrarci il contenuto e il significato di una recente sentenza, fondamentale per la tutela dei diritti civili de su paneri. Buona letturaJ

 

Giraffa, l’editora

 

P.S. per chi non ha studiato il sardo a scuola: su paneri è il fondoschiena, le egue sono le cavalle, nello specifico le giumente.

 

 

Anche su panèri ha il suo onore.

 

O accalloratissimo pubblico della TV della Giraffa, ne è necessario darvene una notizia che è di interesse supremamente mondiale.  Una di quelle cose che ve ne possono cambiare la vita da così a così, mica callonate che volano a vento.     Debbora Cogotti e Kattiuscia Ena, che vivono a piazza Medaglia Miracolosa, sono due egue felici di esserlo e vanno sempre in cerca di storie con uno ricco, che così si sistemano, hanno già detto che lo devono fare pure loro, che così si vendicano pure de tottu cusse bucca purescia di amiche che hanno.     Ora anche il Tribunale l’ha detto che pure il culotto ne ha il suo onore e nessuno lo può offendere, a lui.    Ma proprio nessuno, nemmeno Ginetto su scimpr’e Pirri, che tutti lo sanno che è scemo e parla a vanvera.  Si, appropriatamente il culo, su panèri, proprio quello lì.   Ne dovete sapere infatti che Bonarina Sesselego, nota Bonnary, ne andava sempre fiera del suo, di culotto.  E anche la mamma e pure il babbo.   La sorella, Ioannah, proprio con la h finale che se non la metti se ne gira a frullatore, invece meno che d’era invidiosa, che ce ne erano vagoni di pischelli dietro, a su cunn’e sorri de issa.   Bonnary, scortata alla mamma, ne era anche andata a fare il provino a farne la velina a Striscia la notizia, proprio come a Melassa Satta e a Betta Canale.   Ne è andato così bene il provino che le hanno detto che ha proprio una bellissima bassa espressione, che ne balla come la Stuzziker e che quindi la chiameranno presto a farle sapere.   E lei e sa mamma ne erano appropriatamente felici comenti sa pasca manna.   Ma da allora, proprio a un tratto, gliene sono iniziati ad arrivare sms a su telefoninu come se piovesse!   E tutte cose brutte!  Cose che ne dicevano: “ma dove vai se hai il culo piatto?” oppure “ma non te ne sei vista allo specchio che ne hai una portaerei al posto del sedere?” o anche “sei preoccupata perché non trovi i bermuda? Non te ne preoccupare che te ne presto un mio lenzuolo”.    Bonnary ne era diventata troppo triste e non credeva nemmeno più in se stessa e la mamma allora ne aveva detto: “O Bonnary, tesoro della tua mamma, non esserne triste, a mamma, che la facciamo pagare tutta l’invidia a questa madraffa mala!   Che si capiva bene che d’era una troppo invidiosa che la parlava male a telefonino.  Così era andata alla Questura e ne aveva parlato con l’ispettore Gargiulo che ne aveva incaricato l’agente scelto Gianginetto Vacca, noto Giangi, burdo al punto giusto per risolverne un caso complicato e di spessore, tanto da farne anche a fette, la tensione.   E l’agente scelto Giangi Vacca ne aveva subito messo gli occhi alla grande virtù di Bonnary, se ne era quasi commosso, e ne aveva messo sotto controllo 400 mila telefoni di tutta Kasteddu e area coloniale della grandiosa capitale del Mediterraneo, che ce la invidiano anche a Parigi, che non ha nemmeno il Mediterraneo.  E alla fine, come cercandone un cane nel pagliaio, Giangi l’aveva trovato, il telefonino della madraffa indigna che le mandava i sms a offenderla!   E ne avevano scoperto che era stata Gessica, che ne era grande amica sua e anche compagna di scuola all’Artistico, che ora ne faceva la commessa all’Upim.   Gessica ne era troppo invidiosa perché a lei al provino le avevano detto che non aveva le tette abbastanza grosse e non faceva a mandarla in TV. Eppure si era messa anche il reggiseno finto fatto a cotone dentro!   Ora l’avevano portata dal giudice del Tribunale che aveva detto che non poteva offenderla al culotto, che la legge lo vietava e poi non stava nemmeno bene.   Bonnary era tutta contenta e Gessica prometteva ogni tre parole al giudice che non lo faceva più, che d’era troppo dispiaciuta e, in fondo, c’erano sederi molto peggio di quelli di Bonnary.     Giangi, che ne era sempre più commosso della virtù di Bonnary, se ne era commosso il doppio di quella di Gessica ora così sfortunata.  Il giudice diceva che la condannava perché non si poteva fare appropriatamente in modo diverso, ma l’agente scelto Giangi Vacca aveva detto a Gessica che ci avrebbe messo lui una buona parola e che la accompagnava anche a casa, così le spiegava bene bene che cosa si poteva fare.    E così se ne speravano tutti che ne finiva bene.   Anche po su panèri, che anche lui ne ha il suo onore, è o no ?

 

                          Ringrazio Deledda