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Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (XIII Puntata – La Cascata delle Ombre)

23 Apr

giraffa7Una sera, al crepuscolo, dopo aver preparato il mio giaciglio per la notte, con foglie e rametti secchi, rimasi a guardare l’orizzonte e la luna, che iniziava ad accendersi per noi. Era una sera un po’ così, una di quelle in cui non riuscivo a dormire e pensavo, pensavo alla mia famiglia, ai miei genitori, ai miei fratelli, alla mia vecchia casa, l’Africa. Non che nel Bosco mi trovassi male, al contrario, avevo conosciuto nuovi amici e ci volevamo tanto bene, avevo cibo e acqua in abbondanza, nulla mi mancava eppure…

Eppure, sentivo una cosa in pancia, una specie di nostalgia, per tutto quello che avevo lasciato e per tutto quello che ero stata un tempo.  La malinconia era venuta a farmi visita, ancora una volta.  In questi casi, qui nel Bosco, chiamiamo gli amici o facciamo una passeggiata ma a quell’ora, quasi tutti gli abitanti dormivano, mica potevo svegliare Nando e dirgli che avevo la nostalgia nella pancia! Così, rimasi a guardare il cielo diventare sempre più scuro e, ben presto, tutto diventò buio intorno a me, solo le stelle e la grande luna mi facevano compagnia. Forse, qualche lacrima scese silenziosamente dai miei occhi, ma non lo ricordo bene, le lacrime non vogliono mai essere ricordate, sono fatte così, arrivano e poi si fanno dimenticare.

images (1)Mentre iniziavo a contare le stelle, nella speranza di prendere sonno, una voce dolce iniziò a circolare nella mia testa: «ricorda sempre che conservi un raggio di sole nel sacchetto di vento, cercalo ogni volta che vedrai solo buio intorno a te, cercalo e ti indicherà la strada», era la voce di mia madre! Le sue ultime parole, prima di separarci. In quel momento, vedevo solo buio intorno a me. Allora, cercai il sacchetto di vento con dentro il raggio di sole, che mia madre aveva confezionato per me tanto tempo prima. Era ancora lì, ben conservato sotto il mio manto. Lo presi tra le zampe, era leggero, come il vento di cui era fatto, il mio cuore iniziò a rasserenarsi, come per incanto. Appena lo aprii e vidi il mio raggio di sole, la malinconia svanì del tutto, abbandonò la mia pancia, se ne andò chissà dove, e provai solo una grande gioia, come se in quel momento avessi ritrovato la mia famiglia, la mia vecchia casa, la giraffa che ero stata e si fossero riunite al mio presente. Guardai per l’ultima volta il mio raggio di sole e, poi, riposi il sacchetto di vento nuovamente sotto il mio manto. Mi sentivo serena, ora il buio non era così scuro e non mi faceva sentire sola però, c’era un problema: ancora, non avevo sonno.  Continua a leggere

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (X Puntata – La Cascata dei Ciclamini)

15 Mar

foresta fiori viola belgio«Isadora?».
«Sì?».
«Credo di essere pronta».
«Credi o lo sei?».
«Sono pronta».
«Bene. Ricorda le regole delle Cascate: si inizia dalla Cascata più semplice da raggiungere, per poi arrivare a quella più lontana, con il tragitto più difficile e avventuroso, la Cascata della Luce. Per ogni Cascata, potrai esprimere un desiderio, proporzionato alla difficoltà del percorso. Perciò, man mano che proseguirai, potrai esprimere desideri sempre più grandi e più importanti per te. Ricorda, infine, la regola fondamentale: credi nella possibilità di realizzare il tuo desiderio, solo così la Cascata potrà aiutarti».

E così, anch’io, iniziai i miei viaggi verso le Cascate del Bosco incantato.  Ancora oggi, sebbene abbiano esaudito tutti i miei desideri, vado a trovarle, perché mi emoziono sempre ad ammirare la loro bellezza, la grazia e la forza con cui riescono a tuffarsi e anche perché, in fondo, qualche piccolo sogno da realizzare ce l’ho sempre.

Come sapete, la prima Cascata che visitai, insieme all’amica Isadora, fu quella della Grande Quercia, piccola ma incantevole, con il piccolo laghetto di acqua limpida e fresca.

Poi, fu la volta della Cascata dei Ciclamini.  Continua a leggere

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (IV puntata – L’incontro con la Grande Quercia)

26 Ott

giraffaIl sentiero che portava alla dimora della Grande Quercia si inoltrava nel bosco più fitto ma, stavolta, con la guida di Isadora e con il cuore più tranquillo, non corsi e riuscii a scoprire le bellezze del bosco, le sue creature, i suoi profumi. In quel momento, iniziai a capire di essere giunta in un luogo speciale e magico, con un grande potere: mi faceva sentire serena, e quella era una magia!  Il sole iniziava a salire nel cielo, i suoi raggi si infilavano tra le fronde degli alberi, e illuminavano il meraviglioso volo della mia amica aquila, grazie alla quale scoprii i nomi delle cose nuove che mi attorniavano, e iniziai a sentirmi parte di quei luoghi incantati.  Attraversammo ruscelli, piccole radure dove riposammo per qualche tempo, e trascorremmo la notte al Rifugio del Viandante, una caverna creata da grandi massi, ricoperti di muschio, dove incontrammo anche altri abitanti del Bosco, in viaggio, come ci raccontarono, verso le Cascate del Bosco. Chiesi a Isadora cosa fossero le Cascate del Bosco ma lei rispose soltanto «ti spiegherà ogni cosa la Grande Quercia».  I viandanti erano tanti, c’erano cinghiali, ghiri, pipistrelli, barbagianni, cervi, tutti entusiasti del viaggio che avevano intrapreso. Parlavano di desideri da realizzare, di segnali segreti, di ombre, di silenzio, di cose luminose, di ciclamini, ed io li ascoltavo affascinata, pur non avendo la minima idea di cosa stessero parlando. Trascorremmo una notte tranquilla e la mattina seguente ci mettemmo in viaggio prima del sorgere del sole.

La mia amica Isadora mi guidava con il suo volo alto, ogni tanto volteggiava nel cielo, giocava con il vento e, quando vedeva che le mie zampe tentennavano, scendeva accanto alle mie orecchie, mi spronava ad avanzare, e mi indicava un punto all’orizzonte, dicendo «siamo quasi arrivate».  Dopo tanto camminare, alla fine, giungemmo nei pressi di una piccola cascata, che con la sua acqua formava un altrettanto piccolo lago limpido, dove le raganelle sguazzavano felici.  Lì, Isadora mi disse «siamo arrivate. Se vuoi, puoi rinfrescarti facendo il bagno nel lago, la Grande Quercia ti aspetta poco più in là».  Ma io non vedevo l’ora di conoscere la Grande Quercia.  Dissi all’amica Isadora che mi sarei rinfrescata più tardi e che, quindi, ero pronta all’incontro. «Va bene, seguimi» disse la mia amica e con un battito d’ali si portò davanti ad un albero enorme, altissimo, molto più alto di me, con un grosso tronco, forte, scuro, solcato da profonde rughe, con milioni di foglie che nascevano dai suoi rami. Era bellissimo.

querciaFermandosi davanti al maestoso albero, Isadora fece le presentazioni. «Grande Quercia, ti porto gli omaggi degli abitanti del Bosco, e ti presento la nuova componente della nostra famiglia, si chiama Giraffa da Moltolontano».

«Per tutti i leoni della savana! Faccio parte della famiglia anch’io! » pensai, emozionata, mentre Isadora continuava con la presentazione.

«È stata rapita nel suo Paese, l’Africa, insieme alla sua famiglia, da un gruppo di uomini che avrebbero voluto portarli in uno zoo, insieme ai leoni e agli elefanti ma, durante il tragitto, altri umani hanno assaltato il convoglio, liberando la nostra amica e la sua famiglia. Lei ha vagato da sola per giorni, prima di giungere al Bosco, fino a quando Gianni Barba l’ha trovata, l’ha dissetata e ha vegliato sul suo riposo notturno, per poi affidarla a noi. È una giovane giraffa, un po’ impaurita ma molto curiosa e sveglia, ascolterà in silenzio tutto quello che avrai da dire» e mentre diceva “in silenzio” mi guardò e mi strizzò l’occhio, ed io compresi che avrei dovuto tacere fino alla fine del discorso della Grande Quercia.

Dopo qualche minuto di silenzio, la maestosa quercia esordì, «grazie Isadora, porta i miei saluti a tutti gli abitanti del Bosco e dì loro che, quando avranno un po’ di tempo libero, tra la sagra del sottobosco, il palio dei lombrichi e la caccia alla stella cadente, io sarò sempre qua, eh, pronta a fare una chiacchierata».

La Grande Quercia era un albero che parlava con voce profonda, dolce, un po’ tremolante, da vegliarda, un po’ come la mia nonna giraffa! E, proprio come lei, sgridava tutti perché ci avrebbe voluti sempre vicini, tutti i giorni. Decisi che sarebbe stata la mia nuova nonna.

La Grande Quercia, allora, si rivolse a me. «Benvenuta nel Bosco incantato delle Sette Cascate, Giraffa. Questo è il luogo dove ognuno si sente a casa, dove regna l’armonia e dove tutto può accadere, l’importante è ricordare chi sei».

Stavo per rispondere, dicendo che Isadora mi aveva già dato il benvenuto con quella stessa formula ma ricordai la regola del silenzio e mi fermai in tempo.

«Come stai, adesso, piccola Giraffa?».

«Sto bene, grazie Grande Quercia».

«Bene, bene, mi fa molto piacere. Qui sei a casa, la tua felicità è la felicità di tutti noi. Nel Bosco, infatti, condividiamo gioie e malinconia, in questo modo, come per incanto, le prime si moltiplicano e si diffondono nell’aria mentre la seconda svanisce e diventa una nuvola leggera che vola via col vento» e la grande Quercia imitò il suono del vento che si porta via le nuvole «fiiiiiuuuu, fiiiiiiiuuuu, fiiiiiuuuu».

Dopo qualche minuto però intervenne Isadora «ehm, grande Quercia, la storia, le Regole…».

«Ah, già, certo, la storia, le Regole, sono importanti, sai?».

E Isadora «eh sì…».

«Bene, cara Giraffa, prendi posto accanto me, siediti pure» .

« Ma…veramente…».

Forse, la Grande Quercia non sapeva che noi giraffe stiamo sempre in piedi e solo quando ci sentiamo al sicuro ci sediamo. Ma lei aggiunse «qui sei al sicuro, nel Bosco incantato siamo tutti al riparo da ogni male».

Lì, mi sentivo veramente al sicuro, e così, sedetti accanto alla Grande Quercia, ad ascoltare la sua voce calma e serena (continua).

Le puntate precedenti:

I puntata – Il viaggio

II puntata – In fuga

III puntata – Gli abitanti del Bosco 

Giraffa e il Bosco incantato delle Sette Cascate (III puntata- Gli abitanti del Bosco)

17 Ott

Non so per quanto tempo rimasi addormentata, forse una notte e un giorno interi, forse di più, magari furono solo poche ore, a me sembrò una vita. In ogni caso, al mio risveglio, poco prima del sorgere del sole,  mi ritrovai attorniata da centinaia di animali sconosciuti. Erano tutti fermi, quasi immobili, davanti e di fianco a me, sopra gli alberi, dentro il ruscello, tra i cespugli.  Centinaia di occhi mi fissavano e nessuno parlava.

giraffa_contorta 2Lo ammetto, presi una fifa nera e cacciai un urlo spaventoso «aaaaaaaahhhhhhhh!» e pure loro, all’improvviso, come risvegliati da un sonno ad occhi aperti, iniziarono ad urlare. Neanche le gazzelle urlano così tanto, quando vedono arrivare il leone! Ero sola in mezzo a tante creature sconosciute e impaurite come me. Decisi, allora, di fare quello che mi aveva insegnato mia madre, «quando conosci degli animali mai visti, per prima cosa, è buona educazione che ti presenti, dicendo il tuo nome», e così feci, «scusate! Buongiorno, io mi chiamo Giraffa Da Moltolontano», tutti tacquero nuovamente. Dopo qualche minuto, un animale con le zampe molto corte e i peli neri e ispidi, con delle piccole zanne e un paio di occhiali sul muso, balzò davanti a me dicendo «ciao, io mi chiamo Tarcisio Zannetta detto Nando, e sono un cinghiale. Tu cosa sei?».  Incredibile, parlavamo la stessa lingua!  «Io sono una giraffa». «Una giraffa che si chiama Giraffa…per tutti i cinghiali del bosco! Che fantasia hanno avuto i tuoi genitori!». «Senti, tu, piccoletto, non osare criticare i miei genitori, hai capito? HAI CAPITO?». «Eh, ma che brutto carattere! Scherzavo, tanto per sdrammatizzare» fece il piccoletto, e forse aveva ragione lui, la mia fu una reazione un po’ troppo brusca ma non mi andava che qualcuno criticasse i miei poveri genitori.

Poi si fece avanti un altro piccolo animale, col pelo tutto rosso e una lunga e folta coda «lascia perdere Nando, gli piace sempre scherzare. Il mio nome è Gina Volpetta, e sono una volpe».  Una bella creatura, alta come un’antilope, con un portamento elegante, e con delle grandi corna fece un passo avanti, «piacere di fare la tua conoscenza, Giraffa, il mio nome è Inut delle Radure, sono un cervo», «piacere mio, Inut».  Fu poi la volta di un gruppo di piccoli uccelli con la voce acuta e vivace «ciao! Io sono Bin», «ed io Lin!», «ed io Rac!», «ed io Frik», «ed io Drin!», «ed io Giop! E noi siamo le ballerine!». «Tanto piacere, Bin, Lin, Rac, Frik, Drin e Giop!».

Dal terriccio, sbucarono, poi, dei piccoli animali tutti bianchi. «Ciao Giraffa Da Moltolontano, io fono Giobele, e loro fono la mia famiglia. Te li prefento io, fono un po’ timidi: lei è Giobela, mia moglie, loro fono Giobelino, Giobelina, Giobeletta, Giobelone, i miei figli. Poi c’è mia madre Gioba, mio padre Giobo, i miei fratelli Giobelandro, Giobinunco, Giobenaftro. Poi i miei cugini Giobele II, Giobelaftro, Giobinco e poi… ». «Va bene, va bene, Giobele, grazie per la presentazione, Giraffa sarà sicuramente contenta di conoscere la tua famiglia, avrete tutto il tempo per approfondire l’amicizia, ora lasciamo spazio agli altri» lo interruppe Gina Volpetta.  Ringraziai Giobele. «E fiamo lombrichi» concluse lui.

Così, ad uno ad uno, i possessori di quegli occhi che poco prima mi guardavano curiosi, si presentarono, tranquillamente e senza paura.  La regola di mia madre aveva funzionato, l’educazione e la gentilezza funzionano sempre.  «Bene, cara Giraffa, ti diamo ufficialmente il benvenuto nel Bosco incantato delle Sette Cascate, il luogo dove ognuno si sente a casa, dove regna l’armonia e dove tutto può accadere, l’importante è ricordare chi sei. Ora, però, è giunto il momento di fare visita alla Grande Quercia, lei ti racconterà la storia di questo luogo e ti illustrerà le Regole del Bosco. Andiamo» così disse Isadora Delle Vette, la maestosa aquila del Bosco, una delle creature più belle che avessi mai visto, e mi accompagnò dalla Grande Quercia (continua).

Le puntate precedenti:
I puntata – Il viaggio

II puntata – In fuga

Piccola storia di resistenza.

30 Gen

Chissà come si dice “libertà” in lingua Nu Shu? Sicuramente, sarà scritta con forme curvilinee, tipiche del linguaggio segreto delle donne, vissute qualche secolo fa. Secondo gli studiosi, circa quattro secoli fa, quando la provincia cinese dello Hunan, abitata dalla minoranza Yao, venne conquistata dai cinesi, i quali imposero la loro cultura patriarcale, senza troppa delicatezza nei confronti delle donne. Ma le donne, si sa, nei millenni hanno affinato le loro tecniche di resistenza, a tutti i soprusi, a tutte le vessazioni, a tutte le dominazioni fisiche e, soprattutto, psicologiche e, anche le donne Yao hanno trovato un modo per essere libere: inventarsi una lingua tutta loro, tramandata di madre in figlia, un alfabeto composto da circa 7.000 caratteri sinuosi e curvilinei, a differenza degli ideogrammi cinesi che invece sono più squadrati, da usare per comunicare tra loro, per raccontarsi le difficoltà e darsi conforto per una vita matrimoniale che le condannava inesorabilmente alla sottomissione nei confronti dell’uomo scelto per loro come marito, e al silenzio. Le parole della resistenza, o delle libertà, delle donne Yao, sono rimaste segrete, e incomprensibili agli uomini, per secoli, sepolte sotto terra durante la Rivoluzione culturale di Mao, e si pensava che quel prezioso patrimonio si fosse definitivamente estinto con la morte, l’anno scorso, dell’ultima donna in grado di parlare il Nu Shu e, invece,  così non è stato. Altre donne si sono impegnate, stavolta per resistere all’oblio e per rendere immortali quelle parole, hanno tradotto gli ideogrammi segreti e pubblicato il primo alfabeto Nu Shu, facendo diventare l’antica lingua della resistenza una moda tra le signore cinesi del ventunesimo secolo e addirittura fonte di reddito per i villaggi dello Hunan. Insomma, i moderni raccolgono il frutto delle fatiche, dell’intelligenza e della resistenza delle donne vissute secoli fa e questa storia mi piace per un motivo molto semplice: la libertà trova sempre un modo.

Anche questo è amore.

24 Set

Gianni guardava la piccola Guendalina scartare i regali e pensava che, in fondo, le cose non gli erano andate così male: aveva una bella casa, due figli che adorava, Gianluca e la piccola Guendalina, una moglie, Paola, della quale non sopportava nemmeno l’odore, un buon lavoro, amici e parenti acquisiti che, a volte, rallegravano la sua tavola e, spesso, approfittavano della sua generosità. Le cose non erano andate così male per lui, anche se quella non era la vita che aveva sognato e desiderato tanti anni prima, anche se quella non era la donna di cui si era follemente innamorato, anche se gli occhi di Paola non brillavano quando lo vedevano ma brillavano solo di lacrime quando aveva bisogno dei suoi soldi, quegli occhi non brillavano nemmeno dopo che avevano fatto l’amore, per abitudine e per non perdere l’esercizio, e Gianni aveva smesso di chiedersi cosa mai avrebbe dovuto fare per vederli illuminati, da tempo la cosa non lo interessava. Chissà, poi, se l’aveva mai amata. Erano cresciuti insieme, lui con la sua voglia di conoscere il mondo, lei con la sua voglia di stare attaccata al proprio microcosmo, molto micro, senza altri interessi all’infuori delle riviste di moda. Ma nemmeno questo lo interessava più, gli interessavano i suoi figli, soprattutto Gianluca che ormai era un adolescente e aveva bisogno di qualcuno che badasse a lui, considerata la distrazione della madre, ora più che mai interessata solo all’abbigliamento dell’ultima arrivata, e gli interessava avere una vita tranquilla, nient’altro. Non aveva più pensato a Laura, alla follia che si era impossessata di lui molti anni prima, qualche tempo prima della data delle sue nozze ma quel pomeriggio, in un programma televisivo, aveva visto una donna che le somigliava in modo incredibile e si era chiesto se il tempo avesse infierito su quel viso d’angelo oppure se l’avesse trattato con gentilezza. Eh, già, perché lei era bella, era bella come il sole, aveva una carriera come modella e, solo per un caso, quell’estate era arrivata nella sua piccola città per trascorrere le vacanze al mare con un’amica e si erano conosciuti proprio in spiaggia, sguardi, parole e amore folle, pazzo, incontrollabile. Lei era giovane, dolce, innamoratissima. Lui un trentenne bello, inquieto e insoddisfatto della propria vita. L’estate era finita presto ma non la follia, lei era tornata a Milano, lui la raggiungeva appena possibile e, praticamente, era accaduto ogni settimana, per tutto l’inverno, tutta la primavera, tutta l’estate successiva, fino ad un mese prima del matrimonio, quando qualcuno aveva raccontato ogni cosa alla sua futura sposa la quale, impassibile, aveva fatto di niente, com’era sua abitudine e la follia di un’estate era stata catalogata come un banalissimo errore. Un errore che la sorella di Gianni, Clelia, ricorda ancora con gli occhi umidi, perché lei era l’unica a sapere di quella storia fin dall’inizio, insieme alla sua bambina, Priscilla, alla quale lo zio Gianni commissionava la preparazione di fogli da lettera con le righe create dalla bambina, con le sue penne colorate e profumate. Clelia era l’unica persona con la quale Gianni si confidava, forse per via della sua storia matrimoniale piuttosto travagliata, l’unica che lo aveva accompagnato a scegliere l’abito per il matrimonio: “vuoi sapere una cosa, Clelia? La vuoi sapere”, “cosa?”,noi adesso stiamo camminando su questa strada, tu vedi le persone che passano, vero? Vedi le vetrine dei negozi, giusto? Io vedo lei, la vedo qui, davanti a me, lo capisci? La vedo, allungo la mano e la tocco, è qui davanti ai miei occhi e mi sorride, bella, con i suoi capelli sottili e biondi, innamorata”, “ma sei sicuro di quello che stai facendo?”, “ormai..è andata così” e, dopo essersi asciugato le lacrime era entrato insieme alla sorella nel negozio di abiti da sposa per scegliere l’abito giusto per le nozze.

Non aveva più pensato a Laura, ma quel pomeriggio, quella donna in tv gliel’aveva ricordata e la sera, durante la festa per il compleanno della piccola Guendalina, si era seduto accanto a Priscilla, ormai cresciuta e inquieta come e, forse, più di lui: “ricordi le tue penne colorate e profumate?”, “sì, certo!”, “che fine hanno fatto?”, “è passato tanto tempo, credo di averle buttate via…”, “hai fatto bene, è andata così”.

Vecchie storie.

12 Giu

Quando mi capita di pensare a quello che accadeva nel mondo durante la mia infanzia, trascorsa in parte negli anni ’80, mi vengono in mente soltanto due nomi: Enrico Berlinguer e Alfredino. Il primo, a dire la verità, ha accompagnato tutta la mia infanzia, dal momento che è diventato segretario del Partito Comunista Italiano solo qualche anno prima che io nascessi, ed avendo un padre letteralmente innamorato di lui, il nome Enrico era di casa, il compagno Enrico, sardo di Sassari, era quasi un parente, anzi, più di un parente. Ovviamente, a me Enrico stava molto simpatico, perché aveva l’aria bonaria e mite e perché ne sentivo parlare un gran bene, diciamo che era, fondamentalmente, una persona onesta, solo quando sono cresciuta ho capito cosa avesse fatto per il partito e per l’Italia, e ho capito che all’epoca si potevano ancora trovare degli uomini seri che facevano politica: fu apertamente critico nei confronti della linea seguita dal partito comunista sovietico, convinto che si dovesse creare un “nuovo” comunismo indipendente dall’Unione Sovietica e ruppe definitivamente i rapporti con il famoso-famigerato PCUS (“l’Unione Sovietica ha un regime politico che non garantisce il pieno esercizio delle libertà”). Provò a rendere “presentabile” il PCI e a realizzare riforme sociali ed economiche che avrebbero giovato agli italiani. Con lui il partito comunista raggiunse una popolarità che, probabilmente, nessun compagno aveva mai nemmeno sognato. Il 7 giugno 1984, a Padova, mentre teneva un comizio elettorale, venne colpito da un ictus, tutti si resero conto delle sue condizioni ma lui concluse comunque il suo discorso, nonostante anche la folla gli urlasse di smettere, morì dopo qualche giorno in ospedale. Il suo funerale fu l’unica volta in cui vidi il comunista di casa con le lacrime agli occhi, ricordo una grande emozione e, ovviamente, piansi ma era irrilevante, perché piangevo anche per l’ape Magà.

Alfredino, invece, è la tristezza, l’angoscia, il dolore per una tragedia vissuta in diretta, attraverso la televisione, con un groppo in gola e la paura per quel bambino finito dentro un pozzo, con un fastidioso senso di impotenza che ricordo ancora. Era il mese di giungo del 1981, avevo sette anni. Alfredino aveva più o meno la mia età e, come tutti gli italiani, speravo che i soccorritori lo tirassero fuori da quel tunnel buio dentro la terra. Povero bambino, povera mamma, povero padre. Anche in questo caso, solo da adulta ho capito quanto quelle telecamere puntate sul dolore e sulla tragedia siano state spietate ma, allo stesso tempo, riesco a vedere la differenza tra i telespettatori che siamo stati in quell’occasione, cioè persone sinceramente preoccupate per la sorte di quel bambino, e i telespettatori cinici che siamo diventati oggi, persone morbosamente curiose.

Piccola storia d’amore (d’altri tempi).

10 Mag

Maria era una ragazzina quando venne mandata dalla mamma a servizio dal dottor Fausto, un giovane medico, ricco proprietario terriero, arrivato dalla città in quel piccolo paese del grano, paese di contadini abituati a veder circolare nelle strade sterrate nobili e ricchi cittadini, che trascorrevano i mesi estivi nelle loro ville al mare. All’epoca, siamo intorno agli anni ’40, il turismo non esisteva e la ricchezza del piccolo paese sul mare era basata essenzialmente sull’agricoltura, quasi tutta nelle mani di facoltosi signorotti, non sempre amati, per via di quel comportamento arrogante e strafottente tipico di chi ha il potere di togliere il pane dalla bocca di nidiate di bambini, ma sempre rispettati. Così, Maria si ritrovò a fare la serva (sa serbidora) nella casa del giovane dottore, su dottori. Tutti, in paese, conoscevano la sorte delle servette: il padrone di casa abusava normalmente di loro, e le povere ragazzine spesso si portavano dietro, come ricordo del servizio, un pargolo, la vergogna, colpa, il disprezzo per essersi comportate come cagne in calore (questo si diceva, nudo e crudo) perché il padrone, invece, era tanto buono e innocente. Maria era pronta anche a questo. Però, fin dall’inizio, il dottor Fausto, era sembrato diverso, era gentile con lei, la rispettava, la trattava come una di quelle signore che andavano a trovarlo, quelle signore tutte vestite bene, con il rossetto, con il profumo, tutte belle. Anche lei era bella, sebbene non ne fosse consapevole, aveva i capelli neri come la pece, i lineamenti delicati, lo sguardo fiero, i modi eleganti e, si può facilmente intuire che il dottor Fausto non rimase insensibile a tutto ciò. Insomma, nacque la storia d’amore. Ma proprio d’amore, non semplicemente sfogo sessuale, ma amore, una di quelle cose normali che accadevano anche negli anni ’40, che spinse Fausto a chiedere in moglie Maria. Maria non ne volle sapere, perché “chissà cosa penserà la gente, chissà cosa dirà, che vergogna” mentre Fausto la rassicurava dicendole che, in ogni caso, la gente si sarebbe abituata anche al loro matrimonio. No, no, no, non se ne parla, Maria era irremovibile. E allora, un giorno, Fausto ebbe un’idea grandiosa: entrò nella stalla dove dimoravano i suoi adorati cavalli, prese il suo cavallo più bello, tagliò un bel pezzo della sua lunghissima coda e uscì insieme a lui per le vie del paese. La gente, nel vedere il cavallo in quelle condizioni, uscì dalle case, si fermò per ore a parlare del grande scandalo nella piazza del paesello, e così fece anche il secondo giorno, il terzo, il quarto, il settimo giorno della passeggiata di Fausto con il suo cavallo. L’ottavo giorno, rimasero tutti in casa ad occuparsi delle loro faccende, il cavallo con la coda tagliata non faceva più scalpore. Fausto tornò a casa trionfante “hai visto? La gente si è abituata, si abituerà anche a noi”. Si abituò.

 

P.S. questa storia mi è stata raccontata da mia nonna e da mia madre tanto tempo fa, è una storia realmente accaduta e all’epoca fece scalpore tanto che mia nonna ancora la ricorda. Mi è sempre piaciuta tanto e la riascolto sempre volentieri, forse perché sono sempre stata una stupida giraffa romantica o forse perché mi piace l’idea che anche in un piccolo paese della Sardegna di quegli anni accadessero cose straordinarie.

Piccola storia di ordinaria solitudine.

5 Mag

Anche in questo caso, come succede spesso, ho prima sentito la notizia alla radio poi ho letto cosa fosse successo. “Un bambino trovato morto tra le braccia della madre su una panchina, sconosciute le cause del decesso”, ma che razza di notizia è? In realtà, non c’è uno scoop, non c’è l’allarme sicurezza, non c’è il “virus” della depressione post partum, non ci sono plastici da ricostruire nelle trasmissioni tv, non ci sono psichiatri da invitare nel talk show, c’è soltanto un bambino, morto tra le braccia della madre. C’è una donna straniera, sana di mente, senza paranoie in testa, che non conosce la lingua del Paese straniero che la ospita; sola perché il suo compagno era fuori per lavoro; povera, tanto povera da non potersi permettere le cure per quel bambino di un anno e mezzo; disperata e sotto choc, per aver assistito, impotente, alla morte del proprio bambino. Un bambino è morto perché nessuno lo ha curato, ecco la notizia. Essere immigrati è anche questo.

Piccola storia di un uomo.

20 Mar

Il dottor Claudio Vitale ha cinquantanove anni, fa il neurochirurgo all’ospedale Cardarelli di Napoli ed è un uomo speciale. Ieri si trovava in sala operatoria per asportare un tumore dal cervello di un altro uomo, “anziano ma con il cuore di un ventenne” e, mentre operava, il dottor Vitale ha iniziato a sentire un dolorino al petto, dolorino che aumentava sempre più, sempre più, insomma, il dottor Claudio aveva un infarto in corso e cosa ha fatto? Ha continuato ad operare per asportare il tumore del suo paziente e, una volta finito il suo lavoro è stato portato in sala operatoria dove è stato  sottoposto ad angioplastica. Alla domanda: “non poteva essere sostituito?” risponde: “tutto si può fare, c’è però una assunzione di responsabilità nei riguardi del paziente. Eravamo entrati in una fase delicata dell’intervento, un cambio di mano non era opportuno, e questo a prescindere dalla abilità professionale di chi avrebbe dovuto sostituirmi”.

Ho visto l’intervista fatta al dottore e sono rimasta senza parole, non ha tre occhi, due nasi, sei mani e otto gambe, non è un extraterrestre, è proprio un essere umano, così speciale da sembrare normale.

C’è ancora speranza per la razza umana.

 

Il resto della storia e dell’intervista potete leggerlo sul Corriere del Mezzogiorno.