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Tutto può accadere, l’importante è ricordare chi sei.

21 Set

E torno qui, per ricordare chi sono. Per capire se veramente quel tutto che è accaduto, abbia disintegrato per sempre una parte di me, obbligandomi a ricostruirmi, o se qualcosa della giraffa che ero, in fondo sia rimasta.

Disintegrata? Sì. Per sempre? Sì. Vivere il costante, inevitabile, penoso dissolvimento di una persona cara non può non disintegrare una parte di noi stessi. Per quanto ci si possa impegnare, la fatica e il dolore non possono lasciarci completamente indenni, a meno che decidiamo di trasformarci in macchine.

D’altra parte, come dice il saggio “Il dolore è la rottura dell’involucro che racchiude la vostra comprensione” (Gibran, Il Profeta) quindi, forse, la parte disintegrata è quella che mi impediva di capire. Sia chiaro, io questo dolore non lo volevo, così come non lo voleva nessun membro della famiglia, meno che mai mia madre, la vittima diretta di Mr Alzhy, ma è arrivato, come effetto collaterale della malattia. E mi ha obbligato a comprendere. Comprendere cosa? Un milione di cose, e forse anche qualcuna in più. Ma sopratutto mi ha obbligato e mi obbliga ogni giorno, a ricostruirmi pezzo per pezzo, come se fossi un giochino della Lego: provo un mattoncino quadrato e mi rendo conto che non combacia con gli altri, allora ne prendo uno rettangolare e va bene, poi un altro e sembra che sia compatibile con gli altri e così via, ogni – santo – giorno, con l’unico obiettivo di garantire a mia madre una vita il più possibile dignitosa e serena, e cercare di fare altrettanto con le nostre vite.

Ma tornando sul monte, mi rendo conto che, purtroppo, tra le parti disintegrate c’è anche quella più leggera, c’è la vecchia giraffina che si fermava a sorseggiare un infuso di rugiada all’ombra della grande Quercia, in compagnia delle cicale.

Ecco, ho capito che quella, vale la pena ricostruirla.

Shine

7 Dic

IMG_20151206_164514“Our deepest fear is not that we are inadequate. Our deepest fear is that we are powerful beyond measure. It is our light, not our darkness that most frightens us. We ask ourselves, ‘Who am I to be brilliant, gorgeous, talented, fabulous?’ Actually, who are you not to be? You are a child of God. Your playing small does not serve the world. There is nothing enlightened about shrinking so that other people won’t feel insecure around you. We are all meant to shine, as children do. We were born to make manifest the glory of God that is within us. It’s not just in some of us; it’s in everyone. And as we let our own light shine, we unconsciously give other people permission to do the same. As we are liberated from our own fear, our presence automatically liberates others.”

“La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati, ma di essere potenti oltre misura. E’ la nostra luce, non la nostra ombra a spaventarci di più. Ci chiediamo, chi sono io per essere brillante, bellissimo, pieno di talento e favoloso? In realtà, chi sei tu per non esserlo? Sei figlio di dio. Il tuo giocare in piccolo non serve al mondo. Non c’è niente di illuminato a sminuire se stessi in modo che altre persone non si sentano insicure vicino a te. Siamo tutti nati per brillare come fanno i bambini. Siamo nati per manifestare la gloria di Dio che è dentro di noi. Non solo in alcuni di noi, ma in tutti noi. E mentre lasciamo che la nostra luce risplenda, inconsciamente diamo agli altri la possibilità di fare altrettanto. E quando siamo liberati dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri.”

Marianne Williamson? Nelson Mandela? Chiunque l’abbia detto, non m’importa, è un pensiero che condivido, pienamente. Siamo tutti nati per brillare.

Citazione

Rising sun.

1 Ago

inspiring sunIn response to The Daily Post’s weekly photo challenge: “Inspiration.”

The rising sun is my inspiration. It reminds me we are all meant to shine, as someone said 😉

Rome for the Quotes challenge.

28 Giu

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Rome wasn’t built in a day.

That’s it. So please, relax, don’t worry, take your time, you will build your Rome 😉

Thank you to thesnowmeltssomewhere, a very interesting travel blog where you can find beautiful photos and many ideas for your travels, for passing on to my blog the Three Quotes Challenge. I think it’s a funny way to share thoughts and to inspire readers, maybe.

The challenge: Post a quote for 3 consecutive days.

Rules: ~ Thank the person who nominated you ~ Pass the “golden whisk” on to 3 people

I pass the “golden whisk” on to all the people who have some good quotes to share with us 🙂

No teachers for the Quotes challenge.

27 Giu

I-cannot-teach-anybody

 

I cannot teach anybody anything. I can only make them think. Socrates 

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Dots and Quotes challenge.

26 Giu

Steve-Jobs-Quotes-Connecting-The-Dots-4You can’t connect the dots looking forward; you can only connect them looking backwards. So you have to trust that the dots will somehow connect in your future. You have to trust in something – your gut, destiny, life, karma, whatever. Because believing that the dots will connect down the road will give you the confidence to follow your heart even when it leads you off the well worn path; and that will make all the difference“. Steve Jobs (Stanford University commencement speech, June 2005).

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Le cose importanti.

4 Giu

images (1)Purtroppo, non ho mai potuto leggere molti libri di Stephen King, è sempre stato troppo bravo con le parole e troppo bravo a creare le atmosfere perfette per non farti dormire la notte. Ricordo che al liceo, la mia amica , completamente stregata dal “re dell’horror”, tentava di farmi passare notti insonni con lui (!!) ma essendo io una che aveva trascorso l’infanzia convinta che sotto il letto ci fossero mostri dalle mille forme (grazie agli affascinanti racconti horror di nonna e compagni di classe) ho resistito al richiamo di Stephen e ho letto solo qualche libro. Forse qualcuno l’ho pure rimosso. Ma ricordo perfettamente questo brano, l’avrò letto migliaia di volte da ragazzina, e ogni tanto mi viene in mente, forse quando non dico o non so ascoltare le cose importanti.

Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono le cose di cui ci si vergogna, perché le parole le sminuiscono – le parole rimpiccioliscono cose che sembravano non avere fine quando erano nella vostra testa fino a renderle a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più di questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicino al posto in cui il vostro cuore segreto è sepolto, come i segnali che conducono ad un tesoro che i vostri nemici adorerebbero rubare. E voi potreste fare rivelazioni che vi costano tanto per poi avere delle persone che vi guardano in modo strano, senza capire affatto quello che avete detto, o perché il vostro pensiero fosse così importante da farvi quasi piangere mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, penso. Quando il segreto rimane chiuso a chiave, ben chiuso non per mancanza di qualcuno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia capire.

The most important things are the hardest things to say. They are the things you get ashamed of, because words diminish them-words shrink things that seemed limitless when they were in your head to no more than living size when they’re brought out. But it’s more than that, isn’t it? The most important things lie too close to wherever your secret heart is buried, like landmarks to a treasure your enemies would love to steal away. And you may make revelations that cost you dearly only to have people look at you in a funny way, not understanding what you’ve said at all, or why you thought it was so important that you almost cried while you were saying it. That’s the worst, I think. When the secret stays locked within not for want of a teller but for want of an understanding ear.

Pet loss.

27 Mag

15600639-abstract-colorful-paw-prints-Stock-Vector-cat-dog-pawSi chiama “pet loss” e nessuno ne parla, perché in una società fondata sul primato assoluto dell’essere umano su ogni altro essere vivente, parlare della sofferenza o, per essere precisi, del “lutto” per la perdita di un animale d’affezione, è un tabù o, peggio ancora, una cosa ridicola. Fortunatamente, alcune aree del mondo sono più evolute sotto questo profilo e da qualche anno si è iniziato ad affrontare la questione, riconoscendo dignità al dolore legato alla morte di un animale al quale si era legati, e aiutando quindi le persone ad affrontare la situazione, a non sentirsi né folli né idiote. Il dolore e il senso di perdita per la morte di un animale sono paragonati a quello per la perdita di una persona cara, e qui so già che i più delicati storceranno il naso ma pazienza, e si passa per tutte le fasi del lutto, la negazione, la rabbia e il senso di colpa, la tristezza, l’apatia, l’accettazione. La situazione è un po’ più delicata quando l’animale è giovane o quando si decide di praticare l’eutanasia, per ovvie ragioni. Il fatto di essere consapevoli di tutte le fasi del percorso che ci aspetta, non rende la situazione meno dolorosa, lo so per esperienza, e lo sto vivendo in questo momento. So cosa sta accadendo nel mio cervello ma questo non mi preserva dalla tristezza. So che in questi giorni, pochi da quando la malattia della mia cagnolina è peggiorata e ci ha portato a decidere, d’accordo con il veterinario, di praticare l’eutanasia, il mio cervello è diviso a metà, una parte pensa che lei sia ancora qui, pensa di vederla sbucare con il suo passo incerto da un momento all’altro, pensa di sentire il suo respiro affannoso, si aspetta quell’abbaiare familiare che nell’ultimo periodo non c’era più, pensa di doversi svegliare nel cuore della notte per aiutarla, pensa che sarebbe potuta andare diversamente, pensa che forse … se … magari … , pensa che da qualche parte ci sia mentre l’altra parte sa perfettamente che tutto questo non accadrà, non esiste, non ci sarà mai più. E rimane un senso di stordimento, di stupore, di dolore. Lo so, è così, non si scampa. Poi si farà sentire più forte il senso di mancanza, quello che ora percepisco vagamente al risveglio, quando mi aspetto di trovarla lì a guardarmi mentre si chiede “ma si sta alzando o dobbiamo ancora rimanere a cuccia?”,  al rientro a casa, quando mi volto verso il suo cuscino per vedere se dorme, o quando apro un pacchetto di crackers cercando di non fare rumore. So che avrò voglia di tenerla stretta, e penserò sempre all’ultima volta che l’ho fatto, sentendola finalmente trovare pace e riposo. Lo so, sono preparata, eppure non lo sono per niente, non lo si è mai. Forse perché non siamo preparati a salutare la nostra parte migliore che se ne va per sempre.

 

 

La pazienza del bastone.

12 Mag

un-mazzo-di-fiori-molto-grossoIn questi giorni, grazie a una delle tante feste dedicate ai fiorai, il mondo ha celebrato la figura della “Mamma”. Fiumi di petali, fiumi di dolci (pure io ho preparato delle roselline di pasta sfoglia e mele, niente male) fiumi di parole, fiumi di volemose bbene, per ringraziare la persona più importante della nostra esistenza, quella che più di tutte ha influenzato la nostra psiche, nel bene e nel male. E allora, siamo tutti felici di festeggiare, insieme ai fiorai. Purtroppo, però, un po’ per colpa della mia tardonaggine, un po’ per le illuminazioni che ho avuto sulla via, a me qualche dubbio viene. Il dubbio che dietro i rapporti tra genitori e figli, i ruoli non siano poi così bene definiti, così nitidi, così lineari. La Festa della mamma, la Festa del Papà, ci mancherebbe, celebriamo chi ci ha dato la vita, d’altra parte mica vorremmo celebrare il Figlio, quell’essere egoista che non merita di essere ringraziato mai, perché lui è lì e il suo ruolo è quello di essere il bastone sul quale i genitori si appoggiano, quello di diventare, ad un certo punto della propria vita, il genitore/badante/infermiere/parafulmine di tristezze e paranoie,  24 ore su 24, dei propri genitori, altrimenti quale altra ragione giustificherebbe la sua esistenza? E chi se ne frega se quel figlio egoista sacrifica la propria esistenza per il bene altrui, nessuno se ne accorgerà mai, d’altra parte “io non ti ho mai limitato in nessuna cosa”.  Grazie. Prego.

Muro del pianto casalingo.

26 Apr

Ognuno ha la propria personalissima stanza rifugio, che non è semplicemente quella in cui si fanno riflessioni cosmiche o si scrivono poemi e romanzi che nessuno leggerà mai, ma è quella più intima, quella che ci conosce fino all’ultimo capello, quella che sa cosa ci fa arrabbiare, cosa ci fa piangere, cosa ci fa disperare, quella che ci conosce come nessuno al mondo ci conoscerà mai (per fortuna).
Per molti è la camera da letto, per altri la cucina, per altri ancora la soffitta, per alcuni il seminterrato, addirittura il garage, insomma ne ho sentite varie, mi incuriosisce conoscere le stanze rifugio altrui, per ora manca solo la cuccia del cane. Per me, molto poco poeticamente e molto poco romanticamente, quella stanza è il bagno. Esattamente. Il bagno, amico fidato, silenzioso, accogliente. Non discute, non chiede, non dà soluzioni, non parla (e se dovesse iniziare a farlo forse dovrei preoccuparmi … dovrei?) non giudica, non si preoccupa, è discreto e riservato. Sopratutto, una volta chiuso, nessun oserà aprirlo senza prima bussare e chiedere “posso?“. Meglio anche della panic room di Jodie Foster. Nessuno come lui sa in quanti modi posso piangere e arrabbiarmi, e devo ammettere che ho un bel repertorio, da far impressionare Eleonora Duse. Ma lui, una volta chiuso mi preserva dal pubblico potenziale, che quindi non assiste alle esibizioni da melodramma casalingo. Eccolo, un angolo del mio personalissimo muro del pianto. Poi, un po’ di fondotinta, ombretto, matita, cristalli liquidi, eau de parfum, et voilà, pronta per entrare in scena.

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